di Stefano Tesi
Adoro le verticali, perché consentono di capire molto non solo sull’evoluzione di un vino in sé (che non è poco, comunque), sulle aziende che lo producono e la loro storia ma, più in generale, anche sui mercati vinicoli, l’economia e le abitudini di consumo che una società, bevendo il vino, esprime nel tempo.
Quella che, alcune settimane fa, Dievole – storica azienda chiantigiana, dal 2012 parte del gruppo Abvf Italia facente capo al magnate argentino Alejandro Bulgheroni – ha allestito per il trentennale 1990-2019 del suo Novecento Chianti Classico Riserva è stata, nel senso detto sopra, illuminante.
La ricorrenza era, in qualche modo, tonda, visto che il Novecento fu creato per celebrare un altro anniversario, il novecentenario della prima attestazione storica del toponimo (“Diulele”), contenuta in un documento del 1090 conservato all’Archivio di Stato di Siena.
Si è trattato di una degustazione in due fasi.
La prima, più approfondita e commentata tecnicamente, ha riguardato le nove annate ritenute più idonee (“il che non significa le migliori in assoluto”, ha sottolineato l’ad Stefano Capurso, “ma quelle che abbiamo ritenuto più rappresentative dei periodi presi in esame”), a scolpire le principali fasi aziendali: dal 1990 al 1996, dal 1997 al 2006 e dal 2012 al 2019. E’ stato volutamente “saltato” l’arco di tempo 2007-2012, quando Dievole attraversò un difficile interludio gestionale. I millesimi prescelti sono stati il 1990, 1993, 1995, 2001, 2004, 2006, 2016, 2018 e 2019.
La seconda degustazione, libera, ha interessato invece tutte le venticinque vendemmie disponibili, le bottiglie della quale – diamo merito alla tenacia e al non indifferente impegno degli organizzatori – sono state reperite ad hoc dall’azienda sul mercato internazionale e con non poche difficoltà visto che, nelle cantine, non ne era rimasto neppure un esemplare. Alla fine sono mancate all’appello e al bicchiere solo la 1991, la 1992, la 1999, la 2000 e la 2002.
Unanimi e sorpresi consensi ha riscosso la 1990, un vino “antico” in tutti i sensi visto che, anagrafe e grande annata a parte, era prodotto ancora con una percentuale imprecisata di uve bianche: integro nel colore, con un bel naso cangiante che alle note terziarie fa precedere una discreta freschezza e vitalità, mentre in bocca appare una sorta di vino-manifesto dell’epoca, reattivo, elegante e senza cedimenti..
Un po’ meno convincenti, ma più che bevibili, il 1993, che conteneva anche un po’ di Trebbiano ed è risultato piuttosto evoluto, con accenni balsamici e un palato sapido, e il 1995, un vino più affilato, quasi tagliente, a tratti salino, con qualcosa di rosaceo al naso e un palato sobrio, composto e piacevole.
Molto coerente a se stessa anche la seconda batteria che, al netto dello stile molto muscolare e “parkeriano”, ha dato assaggi comunque interessanti e prodighi di reminiscenze. Dei tre ci ha colpito il 2006, ironia della sorte forse il meno chiantigiano e il più internazionale di tutti, con note terrose e di cacao al naso, sapori di ciliegie sotto spirito e Mon Cherie al palato. Non invecchiato benissimo, però.
Gli interessanti assaggi del periodo 2007-2012 hanno confermato le aspettative, con vini a volte buoni, a volte meno, spesso figli delle mode ma con scarsa continuità e coerenza, a testimonianza della sostanziale mancanza di direzione strategica.
E veniamo alla terza batteria, quella relativa al periodo che comincia col 2012 e il passaggio all’attuale proprietà e arriva fino al 2019. Il salto rispetto al passato è, ovviamente, netto ed evidentissimo. “Con la nostra gestione”, ha spiegato del resto Capurso, “il Novecento è diventato il frutto di una selezione delle migliori uve provenienti da diversi vigneti, che dal 2017 sono anche passati in regime biologico”.
Il 2016 è apparso pimpante, ancora giovanile sia al naso che in bocca, con in evidenza la gentilezza delicata del ribes e della viola, una bella freschezza e tanta sapidità. Vino di grande prospettiva, da aspettare con pazienza se si vuole berlo al meglio.
La difficile annata 2018 si è presentata un po’ scarica all’olfatto, con echi pungenti di melagrana e frutti acerbi, mentre al sorso è emerso un vino vivo, pronto, godibile e perfino invitante.
Forse è ancora troppo giovane per essere giudicato seriamente, il 2019, che tuttavia tradisce già da ora un’elegante potenza e dà continuità a uno stile aziendale improntato all’ampiezza e alla finezza, senza orpelli invasivi.
Nota finale senza piaggeria: è stata una celebrazione coi fiocchi e, siccome è vero, bisogna dirlo.
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