La doc Cirò è probabilmente la più conosciuta fra le 9 che abbracciano il territorio calabrese. Recentemente è stata oggetto di forti dibattiti, di critiche, di preoccupazione, di schieramenti pro e contro, poiché qualcuno ha ritenuto fosse giunto il momento di cambiarne la base ampelografica per andare incontro alle esigenze di mercato (estero), il gaglioppo da solo non va più bene, è lui il problema per cui di Cirò non se ne vende abbastanza. Un lampo di genio, un senso innovativo lungimirante ha portato alla decisione di ammettere al fianco del gaglioppo, vitigni noti a tutto il mondo come cabernet e merlot (si, c’è anche sangiovese e barbera, ma è facile immaginare quanti ne faranno uso).
Non c’è stato verso, nonostante molti abbiano lottato, anche all’interno del consorzio, alla fine il gaglioppo è retrocesso da 100 a 80% minimo; evidentemente, e questo è un problema tutto italiano, ci pensiamo da soli a svalutare i nostri prodotti, a ritenere che i nostri vitigni non abbiano la qualità e la stoffa per interessare il resto del mondo. Abbiamo visto quanto ci abbiano provato a Montalcino, ma anche in Langa con Barolo e Barbaresco, per fortuna senza riuscirci. Aspetto pazientemente di vedere la stessa cosa in Francia, Germania, Spagna, Portogallo ecc…
Sergio e Francesco Arcuri provengono da una famiglia che ha radici vitivinicole fra le più antiche dell’area di Cirò, anche se la loro storia ha rischiato di arrestarsi quando il nonno vendette tutto ciò che aveva ereditato dal padre. Per fortuna papà Giuseppe, che sin da bambino aveva seguito il nonno nella coltivazione, amava troppo la vigna ed il vino e la voglia di ricominciare è stata più forte delle difficoltà economiche e di salute che doveva affrontare. Così ha acquistato dei piccoli appezzamenti, impiantati nel 1948 e 1980, ad alberello come da tradizione. Nel 2005 si è aggiunto 1 ettaro e 75 allevato a cordone speronato, per un totale di 3,75 ettari. I primi imbottigliamenti sono arrivati però nel 2009, dopo i lavori di ammodernamento della cantina di papà.
Sergio mi racconta: “Coltiviamo vigneti impiantati nel 1948, e nel 1980 ad alberello che non intendiamo estirpare anche se il contributo è di 18.000€ ad ettaro, invece di dare i soldi a chi estirpa questi pezzi di storia, potrebbero darli a chi come noi li cura con amore, passione e tanta pazienza. Per coltivare un vecchio vigneto ci vuole il doppio del lavoro e tutto manuale.
Nei vigneti non andiamo a risparmio, facciamo tutto quello che c’è da fare, per tenere al meglio il terreno e di conseguenza i vigneti, usiamo ancora la zappa per lavorare la terra vicino alle viti, mai usato diserbanti, niente concimazioni, per i trattamenti solamente zolfo e rame, quest’ultimo il meno possibile perché le piogge sono limitate dalle nostre parti, l’ultimo trattamento di solito lo effettuiamo 50 giorni prima della raccolta, che normalmente avviene a inizio ottobre, totalmente manuale”.
“In cantina lavoriamo ancora con artigianalità, la vinificazione del rosso “Aris” la facciamo come la faceva il nostro bisnonno Giuseppe, fermentazione in cemento a vasca aperta a cappello sommerso per circa 3 giorni senza temperatura controllata. Per il rosato, che prende il nome del vigneto “Il Marinetto”, le uve vengono raccolte intorno al 20 settembre, una breve macerazione nelle bucce e poi il mosto viene svinato in vasca di cemento a temperatura controllata di 17° C. I vigneti sono in conversione biologica (anche se in realtà sono sempre stati trattati biologicamente), dobbiamo solo certificare la cantina”. Sergio mi racconta anche come hanno scelto il logo aziendale: “Il cerchio è l’impronta che lascia il fondo della bottiglia bagnato di vino, mentre la ramificazione sono i viticci dei tralci della vite.
Ho scelto i viticci perché secondo me sono le braccia e le mani dei tralci, è emozionante quando nel mese di maggio, giorno dopo giorno i tralci, tramite i viticci, si aggrappano ai fili zincati e alle canne, perché nei vigneti vecchi ad alberello per ogni vite c’è una canna; ricordo che già da piccolo vedevo mio papà che rompeva i viticci e legava i tralci con i fili di ginestra dove diceva lui, per riordinare i tralci, ed io gli dicevo ma perché fai questo lavoro? E lui mi rispondeva: i tralci hanno già di natura i fili per reggersi da soli, magari non stanno dove dici tu, ma fa lo stesso, lasciali liberi perché sono vivi”.
La degustazione
Come ci ha raccontato Sergio stesso, la produzione comprende due soli vini, il Cirò Rosso Classico Superiore Aris e il Rosato Il Marinetto, ambedue rigorosamente da uve gaglioppo. Dal primo vino, annata 2009, sono state ottenute 2.600 bottiglie, mentre dal rosato 2010 circa 2.000.
Il Marinetto Rosato 2010
Uvaggio: gaglioppo 100%
Gradazione alcolica: 13,5%
Prezzo in cantina: 6,50 euro
La tradizione dei rosati abbraccia da tempi lontani anche la Calabria e, in particolare, la zona di produzione del Cirò. Il gaglioppo “in rosa” ha un notevole fascino, perché non perde la sua struttura ed energia, lo riconosci comunque, ma acquisisce toni più freschi e vivaci senza per questo diventare banale. Il Marinetto 2010 ci regala un colore rosa granato, antico, ricorda a tratti le sfumature serali di certe terre appena lavorate e pronte per essere seminate. Naso di ciliegia croccante, lamponcino, riverberi agrumati di arancia rossa, melagrana, non manca di suggestivi affreschi floreali. Al palato restituisce un bel frutto carnoso e una vivida freschezza, il leggero tannino ci ricorda il vitigno simbolo della Calabria enoica, tutto scorre in maniera limpida e piacevole, la salivazione decisa stimola l’appetito, e noi non abbiamo nessuna intenzione di deluderlo!
Valutazione @@@ (83-84/100)
Cirò Rosso Classico Superiore Aris 2009
Uvaggio: gaglioppo 100%
Gradazione alcolica: 14%
Prezzo in cantina: 10 euro
Che lo stile di casa Arcuri sia tradizionale lo si percepisce già osservando il vino nel calice, ha un colore granato netto e trasparente, molto simile a quello di un nebbiolo di Gattinara. All’olfatto mantiene i tratti aromatici del vitigno, giocati su toni di ciliegia matura, prugna e spezie fini, ma c’è anche sottobosco, felce, richiami al fungo secco, liquirizia, venature di cuoio e tabacco, una dolcezza di fondo che invoglia alla beva. All’assaggio ha una polpa davvero succosa, cremosa, si sente la qualità dell’uva, c’è buona freschezza e un velo sapido molto piacevole, il tannino è perfettamente integrato e non disturba. Caldo e prolungato il finale, tutto appare “classico” ma in senso positivo, non ci sono “effetti” cercati in cantina, ma solo l’uva trasformata in vino, lo potremmo definire un esemplare che esprime perfettamente le caratteristiche del connubio vitigno-terreno-uomo. Personalmente lo trovo emozionante.
Valutazione @@@@ (88-89/100).
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