di Roberto Giuliani
La storia del moscato viaggia indietro nel tempo fino a quasi mille anni fa. Certo, non esistono documenti di quel periodo che attestino la presenza di questo vitigno a bacca rossa nel territorio di Montefalco, la “Ringhiera dell’Umbria”, ma già nel 1088 ci sono testimonianze scritte che raccontano di terre coltivate a vigneto e nel ‘200 numerosi documenti confermano lo sviluppo della viticoltura in questo lembo di terra. Già allora molte aree erano occupate da viti, persino nel piccolo centro storico, testimoniato ancora oggi dal circuito di viti secolari che si possono osservare percorrendo i numerosi vialetti che digradano dalla piazza del Comune. Sicuramente il moscato veniva coltivato dai frati, infatti con tutta probabilità il nome trova origine nei Sacramenti, e furono proprio i frati a utilizzare quest’uva per produrre un passito destinato ai riti religiosi.
Oggi si racconta, come elemento di certezza, che la tradizione di fare il passito dall’uva era dovuta alla sua strepitosa mole tannica, un’impalcatura in grado di impallidire qualunque altra varietà esistente e rendere impossibile farne un vino secco apprezzabile. Chiacchierando con un produttore locale, in realtà, mi viene rivelato che negli anni ’20 esisteva già una versione secca, ma con tutta probabilità non aveva avuto diffusione per le ragioni appena spiegate.
Se, però, il moscato avesse continuato nella sua tradizione di vino passito, probabilmente sarebbe rimasto un fenomeno locale assai poco conosciuto.
La ricerca e la sperimentazione, ad opera soprattutto di Marco Caprai, figlio di Arnaldo, attraverso indagini approfondite, selezioni clonali, metodi di allevamento e di vinificazione, hanno portato negli anni ’90 a ottenere una versione secca imponente ma ben lavorata, in grado di smussare quei tanto vituperati tannini.
Come spesso accade, per moda, per cambiamenti sociali e culturali, un fenomeno prende il posto di un altro e, manco a farlo apposta, oggi è più facile che si dimentichi l’esistenza del Moscato Passito, o quanto meno che se ne faccia sempre meno uso, anche perché tutti i vini dolci hanno il preciso limite di non poter accompagnare gran parte della nostra cucina.
Per fortuna ci sono ancora moltissime aziende, storiche e non, che continuano a produrlo, una di queste è quella di Roberto Dionigi, situata a Bevagna, l’altro comune coinvolto nella produzione del Moscato.
A questo punto immagino vi aspettiate che parli del Moscato Passito di Roberto, peraltro buonissimo, e invece no! Non sarebbe divertente. Preferisco spiazzarvi, cogliervi di sorpresa con un vino che da queste parti se non è unico poco ci manca. Non vedo perché, essendo rimasto io per primo sconvolto da questo passito, non dovrei parlarvene in barba a quanto raccontato fino ad ora…
Del resto il bello di questo mondo è che ancora oggi ci possono essere sorprese, situazioni imprevedibili che stravolgono il regolare processo della storia.
Insomma, in barba al fondamentale moscato, in casa Dionigi c’è una vera chicca, si chiama Scialo ed è ottenuto, indovinate un po’, da uva moscato bianco, che è prevista dal disciplinare IGT Umbria, ma sono in pochi ad allevarla e a investirci tempo e denaro, non essendo questa la zona privilegiata per la sua produzione.
Eppure lo Scialo è un esempio straordinario delle sorprese che può riservare questo territorio, del resto lo stesso sangiovese meriterebbe maggiore entusiasmo di quanto ne suscita da queste parti, ma non è questo il contesto in cui aprire un ulteriore spunto di riflessione.
Per produrre lo Scialo Passito 2012, le uve sono state raccolte a fine agosto e poste sui graticci ad appassire per un paio di mesi. Dopo la diraspatura e la pressatura subisce la fermentazione in acciaio a temperatura controllata di 15 °C, dopodiché permane in vasca per circa 6 mesi, il processo si completa con altri 6 mesi di bottiglia. Le bottiglie prodotte sono un migliaio da 375 ml, del resto si tratta di una chicca, una ciliegina sulla torta, non è che il mercato sia lì ad aspettare un vino del genere, ma localmente funziona molto bene, nonostante il prezzo di ben 50 euro.
Comunque il vino è già conosciuto ben oltre la regione, tanto che l’annata precedente ha ottenuto la corona di Vini Buoni d’Italia. A mio avviso la 2012 è ancora più convincente, ha un colore oro intenso e caldo, un bouquet che richiama i caratteri dell’uva aromatica espandendosi su note di arancia e albicocca candite, pesca sciroppata, uva passa, miele di zagara, croccantino, nocciola tostata.
Ma è all’assaggio che fa sobbalzare dalla sedia, perché nonostante sia un vino dolce ha un’acidità perfetta che lo solleva da qualsiasi stucchevolezza, le sensazioni scorrono lasciando una scia agrumata piacevolissima e sfumature tostate leggere che trovano ulteriore forza espressiva nella base sapida.
Veramente un eccellente vino passito, da apprezzare sia da solo che a fianco di biscotteria alle mandorle e nocciole, di crostate di albicocche, ma anche di formaggi importanti, dal gorgonzola al bettelmatt di almeno 36 mesi.
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