di Stefano Tesi
Questa è una bella storia, non solamente imprenditoriale.
Tanti anni da c’erano due amiconi, entrambi chiamati Giovanni: il toscano Giò (Gerini) e il napoletano Giua’ (Fiorillo). L’uno macellaio a Pontassieve, l’altro “macellatore” a Poggioreale e appassionato di cucina.
Siccome non c’era internet, né il fax e i telefoni erano pochi, si scrivevano.
Ed oltre a confidenze si scambiavano consigli di cucina, esperienze culinarie dall’uno e dall’altro fronte, fino a mettere insieme un involontario epistolario di memorie e di ricette.
Poi il tempo è volato via. Giò e Giuà sono passati a miglior vita e quel carteggio è finito dimenticato nei bauli. Fino a quando, riordinando le cose, le sorelle Alessandra e Antonella Gerini, eredi dell’oggi celebre macelleria, lo riscoprono.
Rileggerlo ha aperto loro un mondo emozionante, quello di una cucina domestica, pratica e anzi empirica, fatta di gusto e di piccoli segreti, ma sempre affidata all’intuito intuito e ai mezzi semplici.
Inevitabile dunque provare a rifarle, quelle ricette. Particolarmente invitanti i sughi, sui quali le lettere dei due antenati si dilungavano.
I risultati gastronomici, testati più volte in famiglia, sono stati così soddisfacenti da far nascere un’idea: perché non tentare di commercializzarli, questi condimenti così buoni, visto che oggi tutti apprezzano i sapori di una volta, ma la vita quotidiana non lascia a nessuno i tempi lunghi di cui disponevano le nonne (e, nel caso di specie, i nonni)?
Parte così l’operazione.
Dapprima contattano Tonino Fiorillo, nipote di Giuà, e ne ottengono l’imprimatur. Poi trovano il nome della start up (“La Salsamenteria di Giò e Giuà”), come si usa dire, e quindi si avvia la caccia alle materie prime necessarie: ossia i tagli di carne giusti, i pomodori giusti (Sammarzano e Piennolo dop), cipolla di Montoro, olio di Reggello, eccetera. Infine si cominciano gli esperimenti per una produzione in volumi almeno artigianali.
E qui nasce il problema: un volta sterilizzati e invasettati, i sughi parevano perdere nerbo. “Ottimi, certo”, racconta Alessandra, “ma assaggio dopo assaggio non riuscivamo più a trovarci i profumi delle preparazioni fatte tante volte in casa. Così siamo entrate in panne. E abbiamo cominciato a fare mille prove cambiando pentole, vasetti, tecniche, temperature, materie prime. Eppure nulla, quel sentore da cucina della domenica mattina si smarriva inesorabilmente. Ci abbiamo messo diciotto mesi a trovare la soluzione: il nodo stava nella sterilizzazione, che di fatto “ricuoceva” il sugo già pronto, privandolo della sua naturale fragranza. Bisognava dunque fare in modo che il prodotto andasse a punto con la pastorizzazione e non prima di subirla”.
Tratto il dado, ecco venire fuori una linea di sette sughi sull’asse tosconapoletano: ragù toscano a partenopeo, genovese “appippiata” (ossia cotta a fuoco lento per dieci ore) e sugo finto, Sciuè Sciuè del Vesuvio, Salsaforte, Puttanesca con l’Aglione.
“Ma per il massimo risultato – suggeriscono le produttrici – bisogna ricordarsi di scaldare bene i sughi prima di utilizzarli”.
Ovviamente li abbiamo provati in anteprima. Sia alla presentazione ufficiale, sia attraverso il campione che ci è stato offerto, sia grazie un altro paio di vasetti che ci siamo procurati di straforo dopo il Taste fiorentino, dove la linea è stata lanciata.
Ci sono piaciuti in particolare lo Sciuè Sciuè, fatto col Piendolo dop dal gusto amaricante, e ‘A Salaforte a base di peperoncino.
Naturalmente il progetto è ben calibrato: tiratura relativamente limitata (il potenziale produttivo è di 50mila pezzi al massimo) e solo confezioni da 180 grammi, ossia per due persone.
Fascia di prezzo medio-alta: un vasetto andrà in commercio a circa 7 euro, non pochissimo per un sugo.
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