Patriglione 1993. Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più. E come stai? Benissimo, non c’è bisogno di aspettare la risposta. Sto cavolo di vino sta alla grande, uno dei capolavori dell’enologia italiana firmato da Severino Garofano. Lo becchiamo nella carta sempre più ampia e interessante del Magnolia a Forte dei Marmi e lo beviamo sul colombaccio preparato da Cristoforo Trapani. Un cuoco in grande crescita tecnica e culturale. La compagnia è quella giusta: tre care amiche che sanno bere e mangiare. Alè. Non c’è grande vino senza la giusta condivisione, almeno è così per le persone normali e non per quelli che stanno sempre in una sala di autopsia.
Il Patriglione presenta un momento di difficoltà con il tappo andato e una naturale riduzione iniziale. Non è un semplice rito dire che i vini dopo una decina d’anni vanno sboccati un po’ prima e comunque attesi nel bicchiere almeno il tempo necessario. Non sapremo mai quale era il tempo necessario per questo vino perché la bottiglia è finita tutta nell’arco di un’oretta. Tempo in cui il vino ci ha raccontato il Salento cominciando dalle ciliege mature e ancora croccanti, passando per le note di tabacco, carruba, cuoio, fumé, cenere. I tannini del negroamaro ci hanno regalato un vino morbido, preciso nonostante alcuni residui accumulati nel tempo. In bocca un gigante: freschezza, ancora frutta e note sapide. La chiusura pimpante, straordinariamente lunga e sapida. Un vino da pasto, un grande piacere averlo potuto bere di nuovo con il cuoco giusto e con le persone giuste.
A futura memoria: ecco anche il magnifico piatto di Trapani su cui abbiamo bevuto il Patriglione 1993.
Scheda del 7 giugno 2013. Ci sono vini buoni che li bevi con le persone giuste e nel posto giusto. Vent’anni dopo, Rossella Ricci offre questa bottiglia al tavolo perché le piace vincere facile:-) Ritrovo così la leggenda del Negroamaro di Severino tre anni dopo le note che potete leggere nella scheda del dicembre 2010 e penso come mai non si fanno più vini così.
Già, forse qualcosa che risponde a quello che voglio dirvi lo trovate nella cantina di Tecce. Intendo: perché non si fanno più vini così ricchi di carattere, non preoccupati di dover piacere a tutti, capaci di resistere con la stessa energia anche vent’anni, poesia nel bicchiere.
Forse anche questo è un segno dei tempi, in cui in tutti i campi è più importante non sbagliare che fare qualcosa di memorabile, il vecchio gioco del catenaccio all’italiana, l’importante è non prenderle.
Il punto oggi è che però non esistono in campo i Mariolino Corso che con un cross taglia tutto il campo e fa andare a rete.
Paragoni di calcio esoterici a parte, quello che mi colpisce di questa bottiglia, bevuta nel calore di un bellissima rimpatriata tra amici in un ambiente ricco di giovanile entusiasmo in cui una nuova generazione protegge e valorizza quello che ha compiuto la precedente, è proprio il carattere del vino.
E quando lo beviamo sulla cucina decisa, una bistecca di cavallo, l’agnello, lo stinco di coniglio in fondo bruno con funghi, cavolo, questo Patriglione diventa un vinello di buona beva capace di ripulire la bocca e la bottiglia finisce subito.
Un grande classico che ammonisce ai giovani enologi: osate, osate. Non abbiate paura di non piacere, è l’unico modo per andare avanti, solo così conquisterete l’immortalità ai vostri vini.
Scheda del 13 dicembre 2010. C’era una volta una coppia formata da Cosimo Taurino e Severino Garofano. Che forti! Inventarono il vino in Puglia!
Detta così potrebbe sembrare frase offensiva nei confronti di chi c’era prima di loro e soprattutto delle tante aziende che hanno investito con passione su questo magnifico territorio nel corso degli anni. Ma la mia osservazione è da uomo impegnato nella comunicazione soprattutto. Per inventare, intendo dire quando si ebbe per la prima volta fuori dalla Puglia la percezione del livello a cui poteva arrivare una regione che in precedenza sembrava condannata solo a produrre uva, mosto e sfuso.
Era sicuramente una epopea favorevole alle novità, la spinta verso la conoscenza del vino sembrava irrefrenabile e, come sempre, il successo è un mix tra l’intuizione geniale e il momento opportuno nel quale riesce a manifestarsi. Faccio spesso l’esempio di Pisacane e Garibaldi, ove al secondo riuscì di fare quello che aveva in animo il primo appena tre anni dopo.
Il Patriglione esplode dunque per la sua esuberanza, è un vino del Sud per i suoi eccessi di materia e di surmaturazione, ma rivela anche uno stile pulito, netto, chiaro nel suo manifestarsi, annata dopo annata.
In breve Cosimo e Severino diventarono delle star in America dove questo vino prodotto nella terra d’elezione della viticoltura affascinò subito tutti.
Di recente, nell’ambito di Radici Wine Experience ad Altamura, con Franco abbiamo condotto una verticale che mi ha anche cambiato un po’ la prospettiva con la quale avevo guardato a questo vino in precedenza.
In questo senso: bevuto dopo un certo numero di anni, il Patriglione si sfina, prevalgono notte di estrema eleganza con la maturità, la freschezza intonsa accentua la sua bevibilità. Ci ho ripensato durante la mia Immacolata trascosa in una Puglia che amo sempre di più per la capacità di esprimere un Sud non incattivito e non incarognito come invece purtroppo sta accadendo a Napoli. Un Sud ancestrale fatto davvero di olivi, viti, mare, cielo azzurro e soprattutto spazio e silenzi.
Capito così in un ristorante tradizionale, becco la 1993 e la ordino con grandi aspettative. Penso anche che se ci fossero state, non dico molto, non più di altre quattro o cinque coppie come Cosimo e Severino, il Sud oggi potrebbe anche essere considerata una regione enologicamente matura e non ferma ancora al palo delle potenzialità.
Le aspettative non sono deluse, cari amici. E il senso di questo mio intervento nella rubrica è proprio per invitare gli appassionati a non avere remore: quando vi trovate una bottiglia di Patriglione, anche se con oltre dieci anni sul groppone, potete procedere tranquillamente.
Il vino, all’epoca negroamaro e malvasia, è perfettamente sano alla vista e dal punto di vista organolettico. Il colore è ancora rubino, non c’è segnale mattonato o evoluzione granata. Niente residui, nemmeno di fondo bottiglia. Il naso esplode con note di conserva, ma anche di rose secche, sfumatura di cannella, tabacco biondo, conserva di amarena. Mi piace sentirlo per tutta la cena, la sua compagnia dura quasi due ore e sempre c’è mutevolezza.
In bocca colpisce per la sua bevibilità nonostante l’alcol a quota 14,5. L’ingresso ha una iniziale nota dolce, di frutta non di legno o zucchero, a cui subentra la freschezza e l’immensa sapidità. La memoria olfattiva inizialmente riportata con le prime sensazioni si perde per fare largo a nuove sensazioni, di vivacità, velocità, chiusura piacevole, con i tannini presenti ma assolutamente risolti, il legno integrato nella frutta. Un vino che mantiene il suo carattere ma che mostra dopo 17 anni di aver raggiunto un equilibrio, una velocità di crociera che, sono sicuro, saprà mantenere per molti anni ancora.
Bellissima esperienza che, se accoppiata ad uno straordinario 1996 di Nero di Troia di Santa Lucia, questo provato insieme a Franco, dimostra ancora una volta le immense possibilità del continente pugliese.
Taurino, Guagnano. www.taurinovini.it
Patriglione 1993
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