di Roberto Giuliani
Quello che le cooperative fanno vini commerciali e non di valore è un luogo comune che sta facendo ancora danni nell’ambiente enoico. Non c’è dubbio che in passato le cantine sociali di buona parte della penisola mirassero prevalentemente a fare numeri, ma da almeno vent’anni a questa parte in molte regioni le cose stanno cambiando in modo netto, soprattutto per quanto riguarda le realtà medio-piccole, come in questo caso.
Parliamo di Tenute di Fasanella, una cantina situata in quel meraviglioso territorio che è il Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni, in provincia di Salerno. Fu Michele Clavelli, sindaco del Comune di Sant’Angelo a Fasanella, a prendere l’iniziativa di coinvolgere un drappello di vignaioli per creare una cooperativa che desse lustro al territorio cilentano.
Era il 2003, l’idea ebbe successo e furono oltre 40 ad associarsi; da subito l’impostazione fu quella di lavorare in biologico nel rispetto di un territorio dove la natura ha ancora uno spazio incontaminato dove poter esercitare le sue funzioni di salvaguardia.
Il principio era, quindi, più che meritevole, nel 2004, dopo opportune valutazioni delle microzone più adatte, si è iniziato a impiantare le uve tipiche del territorio, come Aglianico, Aglianicone, Primitivo e Fiano, alle quali sono state aggiunte di recente le varietà autoctone cilentane Santa Sofia e Mangiaguerra. Il primo imbottigliamento è stato il 2008, anno in cui è arrivata anche la consulenza dell’enologo Sergio Pappalardo, che ha seguito tutto il processo produttivo di Tenute del Fasanella. Già nel 2009 la Tenuta era in conversione biologica, grazie al fatto di trovarsi in un contesto pedoclimatico del tutto favorevole. La certificazione è arrivata nei tempi opportuni e il lavoro in vigna e cantina è stato impostato con la massima attenzione, consentendo di arrivare a imbottigliare i vini senza aggiunta di solfiti.
Le uve che danno vita all’Auso 2018 sono aglianico per l’80% e primitivo per la restante parte, provengono da un vigneto di 3,62 ettari, posizionato a 500 metri di altitudine in zona San Vito Prato e Lupinelle. Le due uve vengono raccolte in epoche del tutto diverse, il più precoce primitivo nella prima decade di settembre, mentre per l’aglianico si arriva anche alla terza decade di ottobre. Dopo la diraspatura avviene la macerazione prefermentativa a freddo, quella alcolica si svolge in acciaio per 10 giorni a temperatura controllata; poi si effettua la svinatura e pressatura soffice. Alla fine della fermentazione alcolica e malolattica, i due vini ottenuti vengono assemblati e maturati per il 60% in acciaio sulle fecce fini e per il 40% in tonneaux esausti (8° passaggio), segue un affinamento di tre mesi in bottiglia.
Il nome del vino, Auso, rappresenta il primo tratto e il più tortuoso del fiume Fasanella, e deriva dalla profonda grotta da cui fuoriesce, significa “abisso” e per i Santangiolesi è l’origine.
Mi aveva già colpito il Fiano Phasis 2022, di cui ho scritto di recente qui, con l’Auso 2018 ho avuto conferma che questa cooperativa lavora davvero bene: colore rubino con riflessi granata, perfettamente attraversabile dalla luce; profumi di marasca, mirtillo, ribes nero, mirto, cenni di macchia mediterranea, leggero ginepro, pepe bianco, corteccia.
All’assaggio si lancia dritto in avanti, con slancio, grazie a una freschezza decisa e a sensazioni quasi piccanti, su un tannino per nulla ruvido ma equilibrato; le sensazioni fruttate riemergono con decisione mettendo in evidenza una quota agrumata che gli dà ulteriore spinta nel finale. Niente male, se poi pensiamo che lo si può trovare attorno ai 10 euro…
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