
di Stefano Tesi
Diceva mi padre che a tutti, nella vita, capita prima o poi di aver voglia di scrivere il proprio Zibaldone. Insomma un insieme correlato di pensieri, ragionamenti, confessioni, riflessioni. E che a qualcuno riesce.
A Corrado Dottori ad esempio, vignaiolo classe 1972 da Cupramontana – area Verdicchio dei Castelli di Jesi, per capirci – è riuscito.
E il suo volumetto, una volta pubblicato, ha in effetti provocato anche qualche clamore, qualche fremito di interesse tra gli addetti ai lavori e i seguaci dell’enomondo. Al punto che l’opera (“Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente”, Derive Approdi editore, 136 pagine, 13 euro) è già stata ristampata.

Premetto che conosco di persona l’autore e che i suoi vini mi piacciono molto, per la loro naturale profondità. Una volta ho pure visitato brevemente l’azienda.
Ma detto questo, devo anche aggiungere che da Dottori mi dividono molte cose. L’età, la professione, le idee. E il vissuto, o almeno una parte di esso.

Sì perché, un po’ a sorpresa (forse più per lui che per me, però) ho scoperto che, l’uno all’insaputa dell’altro, abbiamo anche parecchie esperienze in comune. Soprattutto la scelta di vita, consapevolmente sofferta, di tornare ad abitare, e non in modo contemplativo, nella campagna vera, quella profonda, delle case gelide, dei giardini inselvatichiti, del senso di isolamento. E delle donne che ti assecondano al punto da farti sentire quasi colpevole dei disagi che, con te e per te, devono affrontare.
E’ in questo collage di reminiscenze, qualche rimpianto, qualche critica (non sempre originale, devo ammettere) al “sistema” vino e alla società occidentale che il libro si sviluppa, con un taglio agile che agevola la lettura e con un insieme di considerazioni che rimbalzano da un capo all’altro dello stile di vita contemporaneo al centro del quale – volutamente – Dottori mette il suo podere, le sue problematiche, le sue quotidianità. Una sorta di ping-pong, di gioco di specchi tra il sé e il resto.
Il tutto dal punto di vista che, lo dice lui stesso, è quello di un dissenziente. A volte anche molto dissenziente. Ma capace – e questo è un merito – di non porsi mai da antagonista preconcetto e anzi di assumere talvolta una posizione di saggio disincanto (una volta si sarebbe detto “coscienza critica”) nei confronti di un mondo alternativo che, tanto nel vino quanto nella società, a volte non è affatto tale e spesso è solo conformista all’anticonformismo.
Così, e contrariamente a quello che si potrebbe pensare, alla fine questo “Non è il vino dell’enologo”, che pure ruota attorno al mondo enoico, non è una lettura riservata solo agli appassionati del buon bere. E pare piuttosto una lettura quasi generazionale, una confessione, adatta a certi transfughi – dalla città, dalla finanza, dal marketing e pure, sebbene meno confessatamente, dalle tentazioni di un contestazione/feticcio – che cominciano, arrivati a un certo punto della vita, a chiedersi se amano più l’utopia in sé o i toni caldissimi, per dirla bertoncellianamente, del suo tramonto.
Un libro comunque, c’è da scommetterci, in cui si riconosceranno in molti. E che il vino fa venire voglia di assaggiarlo.
Si compra per corrispondenza.
Il libro eh, non il vino!
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