di Stefano Tesi
C’è una bella differenza tra favoleggiare di prodotti introvabili, conosciuti solo attraverso avventurosi resoconti di terzi, e metterli realmente in bocca, magari dopo aver assistito di persona anche al rito della loro fabbricazione.
A me è accaduto pochi giorni fa in una remota zona rurale dalle parti di Nevesinje, nella Bosnia-Erzegovina (in Erzegovina, per la precisione, la parte meridionale del paese), tra Mostar e Gacko. Dove ho assaggiato il leggendario sir iz mijeha, ovvero il formaggio affinato (nonché conservato, trasportato e tutto il resto) in un sacco costituito da una pelle di pecora.
Anche al netto di una coreografia fatta di genuina ospitalità contadina, alla prova dei fatti il cacio in parola si è rivelato ottimo.
Fattore importante anche perché, elemento gastronomico a parte, la microproduzione casearia (e agricola in generale) organizzata potrebbe essere una delle scintille grazie alle quali, almeno negli auspici di Oxfam Italia, l’ONG da anni impegnata nel sostegno al settore, il motore dello sfortunato paese balcanico potrebbe destarsi da una condizione di narcosi socioeconomica e istituzionale che dura in pratica dalla fine della sanguinosa guerra del ’92.
E’ infatti del 2009 la nascita dell’Associazione dei produttori del formaggio nel sacco (oggi con 42 soci) e del 2010 la creazione del Centro di promozione dei prodotti tipici e di stagionatura del formaggio nel sacco dell’Erzegovina. “Un centro – sottolinea Silvana Grispino, la responsabile di Country Director di Oxfam Italia per la BIH – permetterà ai produttori di portare a termine il processo secondo metodi e standard controllati, aumentando e garantendo così una qualità del prodotto che è fondamentale per la fase di commercializzazione”.
Divenuto presidio Slow Food nel 2006, il “formaggio nel sacco” sembra provenire da una tradizione antichissima, mantenutasi fino ad oggi da un lato grazie alla sua fondamentale funzione alimentare presso le popolazioni rurali e, dall’altro, da caratteristiche che ne rendono impossibile una produzione su larga scala.
Il sir iz mijeha ha un colore giallo molto chiaro e una pasta di media consistenza che, con la stagionatura (la quale può durare da qualche mese a due anni), tende a diventare più tenace, friabile e asciutta. Il campione che ho assaggiato, stagionato sette mesi, aveva uno spiccato odore di latte e un profumo netto, acuto, non troppo penetrante né persistente. In bocca si è rivelato piacevolmente salato, di media consistenza al morso, con un sapore intenso e deciso, ma non saturante, un leggero fondo amarognolo e una gradevole microgranulosità residua. Per gusto e taglio (lo si mangia a bocconi, in schegge o pezzi tipo grana) è molto appetitoso, adatto ad essere consumato anche da solo, con il pane o come ingrediente per alcuni piatti tipici della tradizione rurale: ad esempio la cicvara, una specie di minestra o pappa fatta con farina di grano saraceno fermentato e mantecata al kajmac (una tipica crema di latte, molto grassa), in cui il cacio viene messo a pezzi e fatto fondere parzialmente, grazie al calore del tegame sul fuoco.
Il formaggio nel sacco si ottiene da latte crudo misto ovino (di pramenka, una razza autoctona), vaccino e talvolta caprino, in percentuali variabili secondo la disponibilità e gli usi del produttore.
Appena pronta, la cagliata viene spezzettata in piccoli tocchi, e ricompattata per alcune ore con l’aiuto di un peso, per la completa fuoriuscita del siero. Dopodichè la massa viene fatta di nuovo a pezzetti, salata e premuta all’interno della pelle di pecora, pronta per la stagionatura. La stessa pelle viene poi aperta e richiusa via via che il contenuto viene consumato.
Ma è proprio la preparazione del contenitore la parte più curiosa della faccenda.
La pelle viene rasata e lavata accuramente più volte. Legate le estremità per garantirne la tenuta, la vescica così ottenuta subisce una vera e propria “gonfiatura” d’aria (una volta con un mantice, oggi usando una relativamente più moderna pompa a mano da bicicletta) e poi l’essiccazione: in pratica è trasformata in un pallone, che resta appeso per giorni al riparo di tettoie e di grondaie, con sicuro effetto scenografico accessorio. Presa la forma, in contenitore viene rilavato e messo ad asciugare.
Una pelle può contenere da 50 a 70 kg di formaggio e può essere usata una, al massimo die volte. Ma costituisce, a pensarci bene, anche un esempio perfetto di riciclaggio e di uso economico degli scarti.
Insomma, oltre al maiale, da quelle parti nemmeno della pecora si butta via nulla.
E, come direbbe Trapattoni, “non dire formaggio se non ce l’hai nel sacco”.
Per qualsiasi informazione sui formaggi, per contattare le associazioni e per richiedere le visite dirette ai produttori contattare:
Okusi Hercegovinu | Stari most 1 | 88000 Mostar BiH | Tel.: +387(0)36554150-1 | Fax:
+387(0)36552376 | info@okusihercegovinu.com | http://www.okusihercegovinu.
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