di Stefano Tesi
Più che la storia di un formaggio, questa potrebbe e forse dovrebbe essere la storia di un personaggio. Ma siccome Garantito Igp è una rubrica enogastronomica, parleremo del primo. Che del secondo porta comunque tanto il nome quanto la paternità: il Gioda.
Il Gioda è dunque un formaggio. Parecchio buono, aggiungo. Lo conoscevo per sentito dire, ma non l’avevo mai assaggiato fino a quando, un paio di mesi fa, il Pellegrinaggio Artusiano non mi ha portato dalle parti di Mondovì, nel cuore rurale del Piemonte e nella cittadina in cui, non a caso, sopravvive l’ultimo dei Comizi Agrari d’Italia. Un’istituzione legata a filo doppio al nostro cacio. Il quale, tanto per cominciare, non ha le radici antichissime, le “remotissime tradizioni”, gli usi che si perdono “nella notte dei tempi” con cui spesso di intorbidano le acque della storia e si allungano quelle del marketing. Per una semplice ragione: il Gioda è un formaggio letteralmente “inventato” nella prima metà del secolo scorso (nel 1928 per la precisione) dal professore padovano Alessandro Gioda (1878-1948), già direttore della cattedra ambulante e poi direttore del Comizio. Un personaggio carismatico, considerato quasi un vate per i contadini che, all’epoca, beneficiavano dei suoi suggerimenti. Fu proprio il desiderio di dare un contributo alla soluzione dei problemi materiali della popolazione rurale che spinse l’agronomo a studiare una tecnica di produzione casearia capace di mettere a frutto le scarse mungiture invernali, trasformandole in un formaggio adatto al tempo stesso al commercio e al consumo domestico: nacque così la “ricetta” del Gioda. L’intuizione del professore fu di introdurre la semicottura delle tome, rendendole simili alle fontine. Poco importa, qui, se l’invenzione fu del tutto originale o se, come
sostiene qualcuno, essa consistè in parte nella messa a punto e nell’uniformazione di metodi già esistenti. Resta il fatto che la “formula” del Gioda prese larga diffusione tra gli allevatori dell’epoca
e la produzione sopvravvisse fino a quando, per le mutate condizioni socioeconomiche, anch’essa divenne poco pratica e poco conveniente, con il rischio di andare perduta.
Fortunatamente, il meticoloso direttore aveva lasciato numerose testimonianze scritte su come produrre quel formaggio (che ancora, ovviamente, non portava il suo nome) e fu grazie ad esse che, dopo la sua morte, fu possibile rintracciare gli ultimi produttori e tramandarne l’arte.
Quest’arte è oggi detenuta dalla Cooperativa Valle Josina di Peveragno (CN), che ancora produce il Gioda alla maniera del suo inventore. Il Gioda, si sarà capito, è fatto con latte vaccino crudo prodotto tutto il territorio coperto dal Comizio Agrario di Mondovì: da Alto, in Alta Val Tanaro, fino ai confini della Liguria, a Beinette, Fossano e Monchiero. Le forme, sulla quali è impresso a caldo il nome “Gioda”, pesano mediamente un paio di chili, hanno un diametro di circa 20 cm, uno scalzo attorno ai 7 cm e vengono stagionate da 20 giorni a due mesi. La crosta – piuttosto morbida, poco spessa e scabra – varia, secondo la stagionatura e le muffe, dal giallo chiaro al grigio granuloso. La pasta è invece elastica, di colore giallo chiarissimo o latte, con un’occhieggiatura minuta e irregolare. Il profumo, di media intensità, molto gradevole e non pungente, richiama ovviamente il latte e trasmette lo stesso sentore in bocca, dove il formaggio si rivela morbido al morso ma non cedevole, anzi piacevolmente resistente, di gusto netto, fragrante, con l’aroma del latte che si unisce ad altri sentori in una inattesa complessità. Personalmente ho annotato una delicata vena amarognola e una bella persistenza al palato, mentre gli esperti dicono che nel Gioda è frequente un retrogusto di nocciola che io, francamente, non ho avvertito durante gli assaggi.
Adatto ad ogni occasione, aperitivi compresi, il Gioda si acquista nei negozi della zona o negli spacci della copperativa produttrice.
Caseificio Cooperativo della Valle Josina
Via Beinette 1, Peveragno (CN)
Tel. 0171/383004
www.vallejosina.it
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