di Lorenzo Colombo
Non siamo degli appassionati dei vini bianchi che fanno legno, soprattutto quando quest’ultimo -ed è un caso non raro- prende il sopravvento e va a mascherare le caratteristiche organolettiche espresse da vitigno e luogo d’origine. In una parola va a coprire il “terroir”.
Non è però certamente il caso di questo “fiorfiore”, prodotto dalla Cantina Roccafiore, situata in località Collina, nel comune di Todi.
Roccafiore in realtà non è unicamente una cantina, ma anche un lussuoso Resort di campagna, con annessi SPA e ristorante (curiosamente il nome del ristorante è lo stesso del vino di cui stiamo parlando).
A noi comunque quello che interessa è il vino che abbiamo dapprima degustato e poi bevuto domenica scorsa (23 luglio).
Prima di parlare di questo però ecco qualche sintetica info sulla cantina.
Fondata da Leonardo Baccarelli, nel 2000, la tenuta s’estende su novanta ettari dei quali quindici a vigneto, vi s’allevano sia vitigni a bacca rossa (sangiovese, sagrantino e montepulciano), sia uve bianche (trebbiano spoletino, moscato giallo e grechetto) dai quali si ricavano cinque vini rossi, un rosato, un vino passito (da moscato giallo) e due bianchi per un totale di circa 120mila bottiglie/anno.
Attualmente è Luca, figlio di Leonardo, a occuparsi direttamente della cantina, avvalendosi della collaborazione di Hartmann Donà e di Alessandro Biancolin.
Ed infine arriviamo al nostro vino, prodotto con uve grechetto di Todi, una varietà differente rispetto all’altro grechetto coltivato in zona -ovvero il Grechetto d’Orvieto- tanto che viene anche chiamato Grechetto Gentile.
In realtà, nonostante sia stata fatta richiesta di differenziazione tra i due vitigni, il Registro Nazionale delle Varietà di Vite considera un’unica tipologia di Grechetto, limitando le differenze ai diversi cloni: il Grechetto di Todi è conosciuto come “clone G5”, mentre quello d’Orvieto viene identificato come “clone G109”.
Il sistema d’allevamento è a Guyot, con densità di 6.500 ceppi /ettaro, la vendemmi viene solitamente effettuata nella seconda metà di settembre. La fermentazione del mosto avviene in acciaio mentre l’affinamento in botti da 50 ettolitri per un anno, ai quali seguono alcuni mesi in bottiglia.
Il colore è un giallo dorato intenso e luminoso, di prim’acchito si pensa ad un vino macerato.
L’intensità olfattiva non è molto elevata, più che l’intensità quello che colpisce è l’ampio spettro olfattivo, dove il legno gioca il suo ruolo senza mai strafare, si colgono quindi le note vanigliate, gli accenni di miele e di fiori di tiglio a lui dovuti, ma in primo piano c’è sempre il frutto, maturo e tropicale, a completare il tutto anche sentori di fieno e di mandorle.
Alla bocca troviamo un vino di grande struttura, senza pesantezze comunque, ma invece fresco e sapido, alcolico e con una bella vena acida, intenso e complesso, si colgono leggere note tostate che rimandano alle nocciole, la persistenza gustativa infine è lunghissima.
Un vino molto sfaccettato e versatile che può benissimo -su alcuni piatti- sostituire anche un rosso.
A tal proposito dicevamo che il vino poi l’abbiamo bevuto ed ha accompagnato più che degnamente baccalà coi peperoni cruschi.
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