Da Barbera del Sannio a Camaiola, ecco il cambio all’anagrafe di uno dei vini più moderni, allegri, bevibili, tipici della nostra amata regione. L’areale di cui parliamo è Castelvenere, piccolo paese appollaiato sulla Valle Telesina che ha un caratteristica, quella di essere il centro più vitato della Regione.
Questo vino rosso è il vino della festa, si abbina alla Scarpella, tipica lasagna di Carnevale di cui ogni casa conserva il suo prezioso ingrediente segreto. E’ moderno perché leggero, profumato, abbinabile al cibo, immediatamente riconoscibile anche se non si è esperti di vino.
Per anni i produttori hanno dovuto spiegare ai loro interlocutori che non era la Barbera del Piemonte anche se portava lo stesso nome. Come Chiamarsi Maradona e spiegare prima ancora di farsi conoscere, che non sei parente del famoso calciatore e che addirittura non hai mai tirato un calcio a un pallone.
L’operazione è partita da Castelvenere, il «paese più vitato del Sud», dove recenti ricerche hanno portato alla luce la coltivazione, agli inizi del ‘900, di una varietà chiamata camaiola, il cui nome scompare proprio quando prende ad affermarsi – a partire dallo stesso paese – quello di barbera. La storia è lunga, si intreccia con l’emigrazione temporanea nel Nord America di quelli che poi diventarono i primi produttori-imbottigliatori castelveneresi, che Oltreoceano conobbero la grande notorietà del nome barbera, allora il vino più famoso al mondo. Si intreccia con vicende religiose, considerato che proprio in quei decenni era forte l’attivismo in questo paese del Sannio di una cellula valdese (con un forte scambio con il Piemonte). E si intreccia – vuole il caso – con la necessità di quei vignaioli di distinguere il proprio prodotto rispetto al «vino Solopaca», che in quei decenni andava affermandosi con forza, anche grazie al fatto che quella di Solopaca era la stazione ferroviaria da cui partivano i vini diretti al Nord e Oltralpe, dove la fillossera aveva infierito sulle vigne.
Camaiola, riferendosi ad un termine provenzale (la lingua ufficiale dei Valdesi), identificherebbe una varietà capace di «macchiare di nero», un’uva dall’alto potere colorante, proprio come questa barbera che barbera non è, utilizzata nei decenni scorsi per «colorare» i vini, proprietà esaltata anche con tecniche di concentrazione (sul fuoco o infornata secondo l’antica tecnica detta «acinata»). Quest’uva, fino a quando la maggior parte del prodotto dell’area (la «cantina della Campania») veniva smerciato sotto forma di frutto, veniva trasformata esclusivamente in loco, a causa delle caratteristiche della sua buccia che ne rendevano praticamente impossibile il trasporto.
Nel corso del XX secolo c’è stata molta confusione su nomi dei vini, il brutale passaggio dalla civiltà rurale a quella urbana maturato nel corso di due guerre mondiali ha portato ad una sorta di perdita di memoria collettiva sulle cose e sui luoghi. Spesso i nomi venivano dati per vendere più facilmente l’uva quando ancora si ragionava sulla quantità, con i produttori sanniti che esponevano il raccolto nei punti vendita lungo la valle.
Ma la viticoltura di qualità e di precisione ha ricostruito lentamente questa storia, quasi un lavoro da archeologici. Dare un nome preciso al vino, magari orecchiabile e facilmente memorizzabile, è il primo passo del suo successo commerciale e per realizzare una operazione simpatia tra gli appassionati. Pensateci bene: non ha più chic dire che “ho bevuto un bicchiere di Camaiola” invece di Barbera del Sannio? Non fosse altro per non sentire la risposta: “e perché non quella del Piemonte, è diversa?” E tu lì a spiegare che non si tratta solo di un clone, ma di un vitigno completamente diverso da quello del Nord.
Dunque la svolta è davvero importante anche se realizzata con anni e anni di ritardo, tale da rendere impossibile cogliere l’attimo del grande boom del vino negli anni ’90. Ma tutto sommato, a pensarci bene, non tutto il male viene per nuocere per questa operazione del vino si realizza in un momento in cui tutti cercano la verità nel bicchiere. E in un contesto in cui la maggioranza delle persone che bevono sono stanche di vini pesanti, troppo strutturati ed eccessivamente alcolici e cercano più semplicità in primo luogo perché sono cambiati gli stili di vita, poi perché è profondamente mutato anche il nostro approccio al cibo, decisamente alleggerito e diretto verso l’orto-mare tipicamente campano e mediterraneo.
Ben venga allora un operazione verità su un vino tipico, ben circoscritto in un’area di produzione, che corrisponde perfettamente alle nuove esigenze dei consumatori più acculturati e attenti alle novità. Le parole sono importanti urla Nanni Moretti in Palommella Rossa. Sì, soprattutto in un momento storico in cui l’estetica sembra essere tutto e il contenuto niente. Qui l’operazione che si è realizzata grazie all’intelligenza dei produttori è esattamente opposta: si dà un nome giusto ad una storia vera, non inventata. Quella dei bravi viticultori di Castelvenere che hanno tenacemente conservato questa uva nel corso degli ultimi decenni.
I PRODUTTORI
La storia in bottiglia inizia nel 1974, per volontà del castelvenerese Salvatore Venditti, anima di Anna Bosco, azienda oggi curata dai figli Filippo e Mario, che presenta le etichette Don Bosco, Armonico e Ororosso e un rosato.
Barbarosa è invece il nome del rosato di Simone Giacomo, una delle ultime cantine nate a Castelvenere, che produce anche la versione rosso.
Vendemmia 2017 in commercio per la Dop Sannio di storici produttori castelveneresi: Barbetta di Venditti, anche nella versione Assenza (senza solfiti, lieviti e tannini aggiunti); Castelle, Torre Venere, Vigne Sannite; Petrare; Foresta; Scompiglio; Mario Pacelli; Thelemako di Fontana delle Selve; Anima Vennerese, prima versione Dop alla Vinicola del Sannio. Igp è Radici di Di Santo, Neropiana e Costa delle viole delle cantine guardiesi Morone e Iannucci e Vianova della paupisana Torre del Pagus. Poi le Dop Sabba della guardiese Grotta delle Janare, de La Vinicola Del Vecchio (Telese) e della Cantina di Solopaca; a La Guardiense le uve vengono utilizzate per il Quid in versione rossa. Non d’annata le etichette Dop di Fattoria Ciabrelli (Rapha’el è 2015) e della Vinicola del Titerno dei fratelli Alfredo e Talio Di Leone attiva a Massa di Faicchio. Lasta but not least, Grotta di Futa de ‘a Cancellera
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