di Roberto Giuliani
Era tanto che non assaggiavo una vecchia annata del Serraboella di Renato Cigliuti, la lunga sosta a casa dovuta alla quarantena mi ha spinto a cercare in cantina se ci fosse ancora qualcosa di questa storica azienda di Neive e ho trovato questa 1997. Devo dire che stappo sempre con un certo timore questo millesimo, definito allora annata del secolo, più che altro per ragioni commerciali, eravamo all’apice del successo con il vino italiano, si vendeva “en primeur”.
In realtà, man mano che passavano gli anni, ci si è resi conto che si trattava di un’annata decisamente pronta, grazie anche al caldo estivo che aveva portato a maturazione il frutto e anche a una certa concentrazione materica, vini più fitti che particolarmente eleganti. Il tempo ha poi mostrato qualche limite di tenuta, a macchia di leopardo, a testimoniare che non sempre un vino, soprattutto se parliamo di Langhe, particolarmente apprezzato appena esce in commercio, ha le carte per mantenere le promesse iniziali.
Ma qui abbiamo di fronte uno dei cru più amati e contesi dell’area del Barbaresco, giunto alla ribalta soprattutto grazie a Renato Cigliuti e Paitin (ma ci sono altri nomi di spicco come i Barale, Massimo Rivetti e Fontanabianca). La prima annata di Serraboella di Renato risale al 1964. C’è da dire che non tutto il Serraboella riesce a dare grandi vini, parliamo di una superficie totale di poco più di 54 ettari, ma quelli dove il nebbiolo è in grado di esprimere il massimo sono meno di 30, tutti posizionati sul crinale che guarda a Neive ed esposti a ovest e sud-ovest.
Mi decido ad aprirlo, per fortuna senza difficoltà grazie a un tappo da 5 cm. che ha tenuto perfettamente per quasi 20 anni la posizione orizzontale del vino.
Una volta versato lo lascio ossigenarsi per un bel po’, diciamo almeno mezz’ora, non senza accostarlo periodicamente al naso per sentirne l’evoluzione espressiva.
La riduzione è minima sin dall’inizio, si apre senza particolari difficoltà, mostra un colore ancora solido sul granato, con unghia che inizia a virare verso il mattone.
Ecco, all’olfatto emerge chiaro che il vino ha tenuto bene, anzi, direi benissimo, si respirano note quasi fresche, le componenti terziarie sono contenute, sottobosco e funghi, felce, ma c’è anche la liquirizia e un frutto maturo per nulla stanco.
In bocca è sorprendente, prima di tutto perché testimonia come Renato ha saputo interpretare bene l’annata, non c’è alcun affaticamento nel vino, l’acidità è lì, ben percepibile, il tannino solido e di grana finissima, il sorso è davvero fresco, non c’è massa ma eleganza, il meglio che possa offrire questo cru di Neive; il vino sembra dichiarare con fermezza che a 23 anni dalla vendemmia la sua ultima ora è ancora lontana.
E più passano i minuti più si accende, vibra, scalpita, mi tocca pure ringraziare mister covid-19, altrimenti chissà quando avrei aperto questa bottiglia…
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