Iniziativa di altissimo profilo del Gambero Rosso all’Alma Graduate School di Bologna: per la prima volta i protagonisti dell’alta ristorazione, cuochi e critici, sono stati radunati per iniziare a fissare delle tracce palpabili capaci di costituire in un futuro prossimo memoria collettiva e non solo patrimonio dei leader della critica enogastronomica chiamati a discuterne in questa due giorni. Una esperienza emozionante e coinvolgente, una riflessione necessaria per ribadire la centralità di quest’arte sinora assolutamente sottovalutata e non percepita nelle sue giuste dimensioni in Italia, considerata in qualche modo minore eppure così decisiva nel cambiare il destino delle località dove questi cuochi si sono espressi e, soprattutto, nel mutare la percezione dell’Italia nel mondo molto di più di quanto non abbiamo fatto sinora i milioni spesi in promozioni varie a destra e a manca.Spetta naturalmente ai promotori offrire un quadro esaustivo dell’iniziativa, per me un punto di svolta dopo anni forsennati in cui si è stati assorbiti dalla quotidianità e dalla stagionalità. Del resto Stefano Bonilli e Marco Bolasco hanno parlato di un prima tappa ed è in atto da tempo l’idea, insieme a Marco Trabucco, di operare una ricostruzione a cui possano attingere anche gli appassionati del futuro.Io qui vi trasmetto solo alcune riflessioni maturate ascoltando gli interventi.La prima è che la tradizione napoletana non fa parte della cucina italiana. La possiamo studiare come si fa con il greco e il latino al Classico, ma è una lingua che non si parla più. Se la ristorazione, infatti, è affidata a professionisti capaci di esprimersi in un mercato, appare in tutta evidenza che la vicenda dei monzù di corte è ormai consegnata alla storia della cucina perché non è stata capace di gemmare una tradizione. Ossia Alfonso Iaccarino e Gennaro Esposito, per citare i due artisti simbolo della rinascita gastronomica campana, sono sicuramente figli dell’innovazione portata da Marchesi più che dell’arte dei cuochi chiamati dai Borbone a cucinare nelle grandi case aristocratiche oltre che a corte.Il motivo di questa riflessione nasce da quanto emerso nella prima sessione coordinata da Enzo Vizzari, ben spiegato da Alfredo Antonaros nella sua presentazione della stupenda esperienza del San Domenico di Imola: la ristorazione di un certo livello nasce in Italia solo alla fine degli anni Cinquanta, quando cioè si sviluppa un mercato in grado di apprezzare il cambiamento grazie allo sviluppo economico. Se non c’è ricchezza, se non c’è pubblico, non può nascere la grande ristorazione, e la Francia dimostra come sia solo la città, la cultura urbana sviluppata, il luogo in cui è possibile la nascita del mestiere di cuoco che è ben diverso da quello, altrettanto nobile, del trattore. L’Italia del boom è un modo di essere della pianura Padana e non è un caso che i protagonisti della nascita dell’alta ristorazione siano tutti all’opera sopra o comunque vicini al Po.Napoli ha rappresentato dunque una linea evolutiva interrotta, nata quando era l’unica città italiana e finita con la sua progressiva decadenza accentuata prima dal Regno delle due Sicilie e poi dallo sviluppo di Roma fra le due guerre, fortemente depauperata infine nel Secondo Dopoguerra dalle diverse crisi che l’hanno attraversata.L’alta ristorazione parte invece dall’esperienza di Bergese, prima cuoco dei Savoia e poi della borghesia piemontese, dall’esperienza di Peppino Cantarelli, e poi da vicende come quella di Guido da Costigliole a Pollenzo, Ezio Santin e, infine, di Marchesi che sta alla percezione della ristorazione tra il grande pubblico per il cibo come Veronelli lo è stato per il vino.E’ proprio nell’innovazione che spunta per la prima volta il Sud con Alfonso Iaccarino, ma per un motivo ben preciso: ed è che la borghesia del Nord, i nuovi ricchi, scoprono la Terra delle Sirene insieme al jet set internazionale in un’epoca d’oro e il lavoro di Alfonso risponde precisamente a questa nuova domanda che proviene dall’esterno, non dall’interno della società napoletana e meridionale, in grado di stupire il pubblico, questo si, grazie alla straordinaria forza dei prodotti e nella capacità di fare riferimento ad una tradizione non solo rurale ma anche in qualche modo già cittadina, svezzata nelle presentazioni e nella scelta di tante ricette.E’ in questo modo che avviene la ricongiunzione con quanto hanno fatto Barbieri, Santini, Vissani e Pierangelini, per citare i protagonisti della seconda sessione dedicata all’innovazione coordinata da Marco Bolasco. Si forma insomma, come nel Medioevo, una comunità di sapienti poliglotta, legata al luogo di lavoro per l’espressione gastronomica, ma nazionale e internazionale per la capacità di percepire i bisogni del nuovo mercato costituito dal consumatore ricco o colto, o anche ricco e colto.In queste storie, ragionando sui tempi lunghi della storia di braudeliana memoria, emerge a mio parere anche la fragilità di un fenomeno sostanzialmente ancora basato sull’impresa familiare, anche se sono sempre più numerose le grandi strutture che offrono ai giovani la possibilità di fare carriera, e soprattutto di uno stile di stare a tavola attualmente aggredito dalla crisi economica e da una serie di luoghi comuni duri a morire. Per intenderci, il piatto di Marchesi delle sette penne con i sette asparagi è ancora oggi in grado di stupire la stragrande maggioranza dei consumatori.Questo accade perché l’alta gastronomia non è dentro il dna di un popolo che ha ancora radici ancestrali rurali, ma è patrimonio di una minoranza colta, e, soprattutto non è percepita come arte, come alto artigianato, ma spesso, anzi, viene messo in risalto nei suoi aspetti caricaturali come accadeva, quando ero piccolo, per l’arte moderna. Non è necessario andare lontano, basta collegarsi al blog di Stefano Bonilli per leggere quanto la sua affermazione sulla necessità, per un appassionato, di andare nei grandi locali della storia della gastronomia italiana, sia stata contestata con la stupefacente motivazione che costano troppo! Che queste obiezioni vengano fatte in un blog specializzato la dice lunga sulle difficoltà che sono sul terreno.Strano destino, quello degli intellettuali italiani, ben analizzato a suo tempo da Gramsci, e cioè di essere in qualche modo destinati a camminare sempre in senso inverso alla massa. Bisogna invece iniziare a distinguere tra il mangiare bene e provare emozioni. E la ricostruzione della storia di chi ci ha fatto provare emozioni sprovincializzando il nostro Paese è sicuramente un compito prioritario da fare al più presto per ripristinare anche le necessarie gerarchie. Non più derogabile perché la tendenza ad avere la memoria di una gallina è sempre più di moda in un popolo di polli.
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