di Gemma Russo
Ѐ un venerdì mattina e sono le 12. Al binario 24 della stazione di Napoli Centrale aspetto Gaetano Pascale, presidente Slow Food Italia, per una breve chiacchierata. Trenta minuti non di più. Ha con sé un trolley ed è pronto a partire per uno degli impegni associativi che lo fanno viaggiare tanto, qualche volta troppo.
Ho con me da dargli un sacchetto di Cicerchia dei Campi Flegrei, legume frutto della terra da cui provengo.
Glielo rendo, contenta che vada in giro con lui per l’Italia. Poi, in una sala d’aspetto rumorosa iniziamo la nostra chiacchierata.
Com’è essere Presidente di Slow Food Italia?
Come tutte le esperienze, dura ma gratificante. La difficoltà all’inizio è stata quella d’integrarsi in una macchina già in corsa. Slow Food opera in tutta Italia e in tutto il mondo, ma il proprio cuore pulsante è in Piemonte.
A 30 anni divieni fiduciario, poi Presidente Regionale. Quale delle due esperienze è stata la più bella?
Quella da fiduciario sicuramente, ma anche quella da Presidente Regionale. Da fiduciario prima e da campano poi, ho preso coscienza che avevamo una regione con un potenziale incredibile che, però, faticava ad affermarsi. Fondamentale diventava, allora, il ruolo di Slow Food. Ѐ in quegli anni che si è costruito il gruppo che oggi guida Slow Food Campania e Basilicata, di cui mi sento parte anche se di fatto nominalmente non ne faccio parte più. Mi hanno aiutato nella costruzione. Ci sono stati momenti brutti, come nel 2006, quando da fiduciario mi candidavo a diventare Presidente Regionale. Sì, quello fu un periodo difficile perché l’associazione in Campania viveva un brutto momento. Con Vito Trotta e Rita Abbagnale, ci rimboccammo le maniche e iniziammo a costruire una nuova realtà.
Come era quella Campania?
A noi non piaceva. Non aveva la “schiena dritta”. Lavorava poco come organizzazione autonoma e molto come agenzia di servizi. Promuoveva la Campania che veniva suggerita ora dalla Regione, ora da una comunità montana. Oggi, è tutto cambiato. Facciamo Leguminosa ed è l’associazione a decidere cosa fare e come farlo. Se non ci fosse stato quel passaggio importante, quel cambio di prospettiva, probabilmente oggi sarei solo socio di Slow Food e non “militante” in Slow Food. L’esperienza fatta in Campania cerchiamo di riportarla a livello nazionale. Questo è il mio approccio.
Il gruppo che hai costruito intorno a te, come Presidente di Slow Food Italia, come è?
Il gruppo campano era nato da una condivisione territoriale; quello nazionale è, invece, frutto della condivisione di principi. Ognuno di noi ha vissuto e maturato idee diverse di territorio. C’è quindi bisogno di un confronto assiduo. Nel fare questo, naturalmente, a risentirne è l’operatività, ma il confronto diventa un passaggio giusto e doveroso per una organizzazione complessa come Slow Food nella quale i processi decisionali vanno condivisi. Qualche volta, dunque, siamo costretti a rallentare ma questo è un po’ il bello della democrazia, no? Quando sono diventato fiduciario, questi non erano eletti ma nominati dall’alto. Oggi, invece, abbiamo un’associazione che gradualmente sta diventando sempre più democratica. La democrazia richiede inevitabilmente questi passaggi affinché venga messa in sicurezza.
Il 26 gennaio 2016, ti abbiamo visto a Roma in visita al presidente Mattarella, con Carlo Petrini. Quale lo scopo della visita?
Siamo andati per presentare Terra Madre e il lavoro svolto dall’associazione. Il presidente Mattarella conosceva bene Slow Food, Terra Madre e il Salone del Gusto. Ѐ stato dunque semplice presentare queste attività con la speranza, abbastanza fondata, di averlo con noi a Torino nel corso della manifestazione. Tutto quello che noi oggi facciamo come Slow Food è legato a Terra Madre. Quello che si fa in condotta, i master, le attività educative, quelle di promozione, gli eventi.
Quali le novità del salone del Gusto?
Si parte dal nome che sarà “Terra Madre. Salone del Gusto”. Questa la prima novità. Il cappello diviene Terra Madre e artefici di tutto saranno le comunità del cibo. La seconda novità sarà entrare nella città. Cambia tanto. Avremo il cielo sulla testa e non ci sarà più un biglietto d’ingresso da pagare. Tutto questo coerentemente con l’approccio che Slow Food vuole avere verso il cibo quotidiano e i consumatori. Stiamo lavorando perché quello che mangiamo tutti i giorni sia buono, pulito e giusto. Ci preoccupiamo del cibo consumato dalla stragrande maggioranza della popolazione e non dal target facoltoso, allora era saggio e coerente che fosse l’associazione ad andare verso la città e non le persone verso essa. Siamo usciti dal “contenitore”, per un “non contenitore”.
Quale è l’importanza dei presidi e delle comunità del cibo per i territori?
Non distinguo le comunità del cibo dai presidi. Sono volti di una stessa medaglia. Oggi, le condotte dovrebbero essere considerate un’estesa comunità del cibo, luogo di incontro tra produttori, trasformatori, distributori, consumatori e ristoratori. Tutti questi attori, in maniera diversa, danno vita ad una stessa comunità. Immagina cosa diventerebbe una condotta nel cui interno, con pari dignità, ci sono tutti questi soggetti. Chi si occupa della produzione, chi della commercializzazione, chi della comunicazione, chi della ristorazione…diviene qualche cosa di straordinario. Tutte le problematiche sarebbero su uno stesso tavolo, con l’intento di farle collimare. Questo è il mio sogno. Si costruirebbe il germe di un sistema locale del cibo. Oggi, tu hai nel pianeta un unico sistema globale del cibo che poi viene caracollato nei territori. Ѐ una sorta di piramide al cui vertice ci sono pochi soggetti. Se si ribalta la piramide, cosa succede? Costruisci tanti sistemi locali connessi tra loro, senza dover negare la globalizzazione. Questi tenderebbero a soddisfare prima la domanda locale, poi quella di prossimità, fino ad arrivare ai punti più lontani della rete. Si metterebbe così in sicurezza il sistema locale del cibo. Se si andasse a studiare l’effetto di una politica alimentare in un sistema globale così complesso come quello odierno, si rischierebbe di non prevederne tutti gli effetti. La stessa politica alimentare, tranne in casi particolari, potrebbe avere effetti diversi da quelli per cui è stata messa in atto. Se, invece, la si governasse in maniera locale se ne vedrebbero subito gli effetti su occupazione, reddito delle aziende agricole, aggiustandone eventualmente il tiro. Se le politiche nazionali e regionali andassero in questa direzione, avremmo un vero controllo delle politiche alimentari sul territorio.
Ѐ questa una utopia?
Non lo è. Abbiamo già delle realtà in cui avviene questo. Pensa ai presidi. Con questi, si è cambiata la vita a delle famiglie che diversamente avrebbero fatto un altro lavoro abbandonando quelle attività. L’effetto lo abbiamo sotto casa, non dobbiamo cercarlo chissà dove. Sono solo troppo sparse. In futuro, dovremmo sempre più andare verso sistemi territoriali del cibo. Per arrivare a questo, fondamentali saranno le comunità del cibo. Bisogna lavorare sul quadro normativo. Se cambiano una serie di norme e cambia l’approccio di chi fa la spesa, quelli che sono oggi dei modelli discontinui divengono sistemi. Se fosse utopia non avremmo neanche i modelli, no? Invece, quelli ci sono. Occorre solo che diventino normalità. Questi sono processi che giungono a compimento quando un congruo pezzo di popolazione diviene “massa critica”.
Presidente, quindi ci vedremo dal 4 al 6 marzo a Napoli, a Piazza Dante, per Leguminosa 2016?
Certo! Leguminosa è stato uno dei miei più grandi crucci da presidente regionale. La manifestazione partì alla fine del mio mandato. L’idea fu mia ma i meriti della realizzazione furono tutti della nuova dirigenza regionale che, di fatto, era già in carica allora. Sono convinto che piano piano diventerà tra gli eventi di Slow Food più importanti. Sarà un po’ come Slow Fish. Ѐ l’unico evento dell’associazione ad essere fatto al sud Italia. Attraverso Leguminosa possiamo dare corpo a tante delle cose che diciamo. Significa tanto per le comunità dell’Appennino e per tutte quelle aree definite da qualcuno con ostinazione marginali avere una manifestazione che dia spazio a produzioni che altrimenti non ne avrebbero. Questa è una grande opportunità. Slow Food Italia vuole essere da supporto a Slow Food Campania.
Quale è la responsabilità che la sua generazione ha verso i giovani?
La mia generazione ha il compito di dare a questi l’opportunità di scegliere di non andare via dal luogo d’origine. Di non farli tornare all’agricoltura perché non c’è altro da fare, ma farli scegliere di restare in agricoltura. Due sono gli aspetti su cui occorre fare leva. Il primo è indubbiamente l’utilizzo delle innovazioni che deve essere su piccola scala. Non stiamo parlando dell’innovazione industriale. Recuperare le tradizioni ma innovare, trasformando quello che si produce. Il secondo aspetto si chiama biodiversità. L’unico modo per dare speranza alle piccole aziende agricole, soprattutto se giovani, è avere una identità forte, basata sulle produzioni locali che non potrebbe esistere senza la biodiversità. Se tutto fosse uguale nel mondo, non ce la si farebbe a sostenere modelli alimentari produttivi basati su piccoli numeri. Questi hanno ragione d’essere solo con una propria identità. Immaginiamo una economia in cui a vincere non sia chi di una stessa varietà abbia la resa più alta ma chi produce la più buona. Bisogna essere produttori di cibo e non produttori di materie prime per altri.
Foto di Angelo Greco e Marina Sgamato
Dai un'occhiata anche a:
- Roberto Canestrini, l’enologo giramondo più esplosivo che ci sia
- Gerardo Vernazzaro, mister Piedirosso a Cantine Astroni
- L’uomo cucina, la donna nutre – 16 Michelina Fischetti: il ponte tra passato e futuro di Oasis Sapori- Antichi a Vallesaccarda
- Teresa Mincione, dalla toga al Casavecchia: Nulla è per Caso
- Nanni Arbellini e Pizzium, quando i sogni americani si realizzano anche in Italia
- Addio a Gianfranco Sorrentino, un mito della ristorazione in America
- Lino Scarallo: lo scugnizzo stellato e la rosamarina
- L’uomo cucina, la donna nutre – 17 Bianca Mucciolo de La Rosa Bianca ad Aquara