Uno dei luoghi comuni più diffusi, ma anche meno precisi, è quello che riguarda la radice povera e popolare della cucina napoletana. In realtà, a partire dalla seconda metà del ’700, in città si è avuta una vera e propria rivoluzione gastronomica segnata dalla crescente influenza della Francia e dall’incrocio delle tecniche parigine con le materie prime del territorio oltre che della pasta. Sono stati i monzu, cuochi di corte e delle cucine aristocratiche, i protagonisti di questa ondata, perché se l’Italia ha conosciuto la nouvelle cuisine negli anni ’70, le tecniche francesi sono arrivate Napoli e in Sicilia quasi due secoli prima.
Parte proprio da questo incipit l’ultimo lavoro di Franco Santasilia di Torpino («I Primi, 35 ricette ispirate alla Cucina Napoletana di Corte» edito da De Luca Editori d’Arte).
Ma in cosa consiste l’influenza della Francia nella cucina napoletana a cavallo tra ’700 e ’800?
In due aspetti fondamentali: il primo costituito dalla tecnica di utilizzo dei prodotti che punta agli accostamenti e all’arricchimento progressivo del piatto, una costruzione sempre barocca e mai essenziale, ricca di sapori.
Il secondo è l’introduzione di alcune salse di base che ancora oggi distinguono l’impostazione della cucina classica transalpina da quella del resto del mondo, messa in discussione dagli spagnoli guidati da Ferran Adrià e adesso dal vento del Nord che ha nel Noma di Renè Redzepi a Copenhagen il punto di riferimento più importanti. Ma questi due elementi vengono tradotti a Napoli in primo luogo con la voglia di colpire la fantasia e la cura della scena che ancora oggi è un elemento predominante nel comportamento psicologico partenopeo. E poi con le materie prime: verdure di grandissima qualità, frutta dal sapore inimitabile e, soprattutto, la pasta, nata in Sicilia ma adottata a tal punto da trasformare i napoletani da mangiafoglie a mangiamaccheorni in un solo secolo.
Troverete nel libro di Franco Santasilia di Torpino (autore del fondamentale «La cucina aristocratica napoletana» del 1988) libro alcuni capisaldi che, non vi vogliamo scoraggiare, difficilmente avrete la capacità di ripetere a casa, come il famoso cerino, alias Timballo Flammand, uno dei piatti più spettacolari della cucina di corte e che prevede una elaborazione molto complicata. E ancora il timballo di anelletti alla Maria Sofia, ancora oggi moto diffusi in Sicilia dove pure l’influenza della cucina dei monzu è stata molto importante.
Non manca il riso, altro prodotto del Sud di cui si sono perse tracce (Riso rosa allo scoglio, la Savarin di riso bianco e nero), i peperoni imbottiti di peperoni, le palle di maccheroni (ripreso da Rosanna Marziale la cui cupola però in questo caso è la mozzarella, ricetta che ha sbancato nella finale di Masterchef. Anche materie prime moderne, come tonno e fagiolini, diventavano complesse ricette come la mousse di tonno ai fagiolini nella quale entrano, pensate, ben 200 grammi di maionese e 70 grammi di panna montata.
Resta un quesito antropologico non di poco conto: come mai a Napoli in cucina i poveri hanno «vinto» sui ricchi? In una parola, perché la gastronomia campana si ispira alle preparazioni di strada o a quelle vegetali elaborate ai tempi della fame atavica del popolo napoletano e non a queste sontuose preparazioni presentate nelle tavole dei nobili? Forse la prima risposta che si può dare è nella perdita progressiva di importanza del ruolo sociale dell’aristocrazia napoletana, passata in poco meno di un secolo da un ruolo di assoluta preminenza europea a quello di consumo della rendita fondiaria e di difesa dei privilegi senza avere più la capacità di governo. Al tempo stesso la cucina della classe borghese, peraltro in città mai egemone culturalmente e socialmente, è per antonomasia figlia dell’omologazione oltre che dell’inappetenza salutista. Inoltre, dobbiamo dirlo, questa cucina ricca di grassi e di salse è assolutamente difficile da sostenere con i ritmi attuali di vita, i tempi ristretti per cucinare, e le preoccupazioni dietetiche.
Insomma, si presenta come una cucina poco attuale in un momento in cui i ricchi mangiano quello che mangiavano i poveri (verdure) e i poveri quello che mangiavano i ricchi (la carne). Così questa cucina al momento viene coltivata quasi come una lingua morta, ricca di fascino per chi la conosce, ma assolutamente ininfluente nella vita quotidiana di tutti i giorni. Eppure, ne siamo sicuri, i giovani cuochi potrebbero trarre più di una ispirazione da queste costruzioni gastronomiche, piatti pensati per stupire e per coinvolgere le tavolate.
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