di Luciano Pignataro
A ben pensarci nella mia vita professionale mi ha sempre attratto il produttore più che il vino, il cuoco più che il piatto, il pizzaiolo più che la pizza. Il racconto delle persone è la cosa più bella del lavoro di giornalista ed è la molla che ancora oggi mi spinge a fare migliaia di chilometri. Alla fine il prodotto diventa il simbolo di qualcosa che è molto più grande, anche se spesso pochi protagonisti ne hanno coscienza.
Quello che in fondo mi deluse di più della trasmissione di Report dedicata alla pizza è che non aveva colto il dato essenziale di quello che stava accadendo a Napoli: il ritrovato orgoglio di un mestiere considerato negletto e all’ultima scala come valore sociale. Tutte quelle menate sull’integrale e sulla gestione dei forni non coglievano l’essenza del fenomeno, il fatto che decine di giovani per la prima volta vedevano una possibilità in questo lavoro. Possibilità vera, non raccontata, non astratta.
Vale per tutto l’agroalimentare, ovviamente. Ma per la pizza molto di più perché un prodotto popolare, per quei miracoli di cui solo Napoli è capace, è diventato identitario.
Per questo mi irrita molto la frase “in fondo sempre di pizza parliamo”. Perché, c’è qualcosa di più serio che cibo che ingeriamo per vivere?
Vivete con me tre episodi lontani ma che hanno un sottofondo comune.
FRANCO PEPE E IL CENTRO STORICO DI CAIAZZO
La prima volta che visitai Caiazzo fu ennemila anni fa per trovare Manuela Piancastelli e Peppe Mancini che producevano il loro vino da tre nuovi vitigni, Pallagrello Nero e Bianco e Casavecchia. Il centro storico, come tanti borghi del Sud, era in stato di abbandono perché gli abitanti tendono a lasciare le case in pietra per abitare nelle nuove in cemento. Scale, scaline, ciottolato, vivere in questi borghi del Sud non è proprio comodo. Le case quasi si davano via perché non rendevano se non allo Stato per le tasse. Beh, da quando Franco Pepe ha aperto la sua pizzeria recuperando uno stabile e creando una pizzeria che mai nessuno prima di lui aveva concepito, con tanto di stanze per dormire, la musica è cambiata. Si sono avviate molte attività, il valore degli immobili ha ripreso quota e il borgo si è rianimato. Certo, possiamo parlare fino alla nausea se la sua margherita sbagliata sia meglio della scarpetta, ma il dato che ho sempre, sempre, avuto in mente è questo: no Pepe, no centro storico di Caiazzo. Basterebbe una grande pizzeria in ogni borgo del Sud.
Ecco il valore sociale di una pizza. Sì, di una pizza.
I FRATELLI SALVO E LA PATATA INTERRATA
Tra qualche giorno a Cautano, un paesino del Taburno nel Beneventano si celebra una festa dedicata alla patata interrata. Si tratta di un antico metodo di conservazione naturale che si andava perdendo. Una coltivazione a rischio estinzione. Ad un certo punto i fratelli Francesco e Salvatore decidono che per il loro crocché ci vogliono non solo patate vere, ma anche patate eccezionali. Conoscono la produzione sannita e, così come per altri prodotti, ci investono. In questo modo una pizzeria dai grandi numeri riesce a tenere in piedi una pratica agricola che farebbe inorridire i bocconiani e gli scienziati pazzi delle multinazionali, quelli che spediscono i loro clienti nei reparti di oncologia. Ed ecco perché per me il crocchè dei fratelli Salvo sarà sempre il più buono del mondo, c’è il sapore delle mani contadine e non la tecnica di costose scuole di cucina del Nord. Vale per la patata come per tanti altri prodotti e io questo ho sempre tenuto bene in mente.
No fratelli Salvo, no patata interrata.
Ecco il valore sociale di una pizza. Sì, di una pizza.
Al lavoro da quando aveva 13 anni inizia ad raccogliere le sue soddisfazioni a 41. La principale è la lunga fila all’ingresso ogni sera, a cui ogni pizzaiolo dovrebbe pensare prima dei like di facebook e ai riconoscimenti della critica o agli articoli dei giornali. Perché i secondi non fanno una pizza, ma ne sono una conseguenza. Le pinne (la comunicazione e la fama) sono inutili se non si sa nuotare. La soddisfazione di avere la fila come ai Tribunali. Ma non al centro, non sul lungomare invaso ogni giorno da migliaia di persone, e neanche al Vomero o vicino la Stazione dove i clienti ti cadono dentro. Ma a Soccavo, un quartiere difficile, alla ribalta delle cronache per altri motivi. No Porzio, no Soccavo. E non è certo l’unico esempio: alla Loggetta c’è Marco Pellone, a Fuorigrotta Raffaele Bonetta di Ciarly.
Una buona pizzeria vale più di una stazione di polizia come stimolo alla legalità.
Ecco il valore sociale di una pizza. Sì, di una pizza.
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Il miracolo della pizza.
E non importa se a breve tutto sarà commerciale, già visto come è accaduto per il vino e la ristorazione.
L’importante di un amore è sempre l’inizio e noi lo stiamo vivendo.
Ma non il miracolo di una pizza qualsiasi.
Di una buona pizza fatta da chi sta sempre vicino al forno perché senza etica non c’è estetica.
L’estetica di un centro storico di un piccolo paese, di una coltura agricola, di un quartiere di Napoli.
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