Per una buona volta, comincerei dal finale – spumeggiante, è proprio il caso di dirlo – con i partecipanti al convegno che hanno brindato insieme, assaggiando il Numero Zero di Villa Crespia (chardonnay in purezza e unico franciacorta non dosato dei 6 prodotti nella tenuta di Adro), lo Champagne Brut Nature Millésime Exception 2004 di Drappier (assemblaggio di pinot nero, chardonnay e pinot meunier dalla regione dell’Aube) e il Cava Brut Nature Reserva de la familia 2008 di Juvé y Camps (cuvée di uve macabeo, xarel.lo, parellada e chardonnay).
Tre diverse bollicine ma un’idea comune: il dosaggio zero come strada da percorrere per soddisfare un segmento di mercato in costante crescita, amante del gusto distrazioni-zero, dubbi-zero, distorsioni-zero, come ben diceva la clip di presentazione del convegno che si è svolto il 23 gennaio scorso a Villa Crespia e ha visto la partecipazione di circa 200 tra giornalisti, bloggers, produttori (pochi, per la verità) e operatori.
A fare gli onori di casa, Bruno Muratori e Francesco Iacono, rispettivamente Presidente ed enologo dell’Arcipelago Muratori, che hanno insistito – a ragione – sull’unicità di un incontro storico e sul concetto di territorialità alla base di una scelta coraggiosa, quella del non-dosaggio, per proseguire nell’opera di valorizzazione di un territorio che è altamente vocato per la produzione di metodo classico.
Molto approfondito l’excursus proposto dal professor Attilio Scienza, che ha ripercorso le tappe della storia secolare dello Champagne. Partendo dal “Pranzo di ostriche” (il celebre quadro del pittore Jean-Francois De Troy in cui gli invitati sono raffigurati proprio mentre guardano il tappo saltare in aria), il professore si sofferma sul passaggio – nella Champagne – dalla produzione di vini rossi e rosé a base pinot nero a quella di vini spumanti, per arrivare infine al 1830, anno in cui l’uso del dosaggio era ormai pressoché generalizzato: «lo Champagne era un vino da fine pasto, “degno di un dessert”, e perciò grande attenzione era riposta nella determinazione delle quantità di zucchero da utilizzare». Poi, da un lato i profondi mutamenti climatici, dall’altro il nuovo gusto del consumatore hanno determinato importanti cambiamenti nella produzione così che man mano che le temperature sono andate alzandosi, il dosaggio è divenuto sempre più basso (nel 1874 la signora Pommery iniziò a produrre Pommery nature, sec e dry per il mercato americano).
La premessa di Luca Gardini (Campione del Mondo dei Sommelier e degustatore di Spirito di Vino) sembra ovvia: Champagne e Franciacorta sono due vini diversi e per questo motivo non è giusto paragonarli. Poi, ammessa una particolare predilezione per il “dosaggio zero”, Gardini dice che «i tempi sono cambiati e con essi anche il gusto della gente. Gli italiani stanno apprezzando sempre di più il non-dosato perché riesce a dare grandi emozioni sia in gioventù che in prospettiva di evoluzione nel tempo. Dobbiamo credere di più in questa tipologia, facendo attenzione a comunicare in modo da non farla diventare una moda: può davvero essere un valore aggiunto per determinati territori».
Non aveva certo bisogno di presentazioni Michel Drappier, apprezzato produttore dell’Aube (regione meridionale della Champagne, famosa per i suoi pinot nero): «per una famiglia come la mia che produce Champagne da circa 200 anni, il “dosaggio zero” ha rappresentato la svolta. Oggi riusciamo a tirare fuori il vero carattere dei nostri vini che prima erano troppo mascherati dalla liqueur. Il 12% della nostra produzione è di “brut nature” a fronte dello 0,3% nell’intera Champagne. Se oggi la media è di circa 10-12 g/l, credo che nel prossimo futuro si andrà sempre più verso una diminuzione; certo, continuerà ad esserci anche un dosaggio superiore, almeno fino a quando ci sarà qualcuno a cui piacerà».
Molto interessante anche l’intervento della wine writer americana Michèle Shah: «ci sono 3 criteri, a mio avviso, per entrare in un mercato: la valutazione dell’economia (analisi del potenziale di acquisto, del benessere e dell’eventuale incidenza del cambio di valuta), la cultura e i trends (comprese le mode del settore). Se da un lato sono da valutare positivamente la crescita globale della tipologia spumanti (trainata dal grande successo commerciale del Prosecco) e, più in generale, l’ottimo lavoro di promozione degli spumanti italiani fatta “sul campo” dai sommelier della ristorazione italiana all’estero oltre che l’appeal del “dosage zero” in ottica salutista, dall’altro incidono negativamente la scarsa conoscenza della tipologia e il fatto che il consumatore medio – generalmente orientato verso prodotti più abboccati – non è disposto a spendere per un brand non conosciuto. Per questi motivi è fondamentale lavorare per creare una propria identità, incrementando gli sforzi – anche economici – di “brand building” e cercando di collocare il Franciacorta nella fascia Premium e non in quella degli spumanti generici».
È stato poi il turno di Jordi Melendo, giornalista e wine blogger spagnolo: «nella produzione del Cava, lo zucchero serviva per lo più a “coprire” prodotti generalmente mediocri. Poi s’è capito che il clima favorevole di alcune zone avrebbe permesso di fare del vino buono senza aggiunta della liqueur. La zona dove si produce il Cava è molto vicina alla costa e le alte temperature estive favoriscon il consumo di vini freschi e, magari, con le bollicine. L’errore è stato pensare alla quantità più che alla qualità».
Ha chiuso i lavori Andrea Gori (sommelier, wine blogger e Ambasciatore dello Champagne per l’Italia), presentando i risultati del sondaggio condotto in rete che ha offerto alcuni interessanti spunti. Il “dosaggio zero”, per esempio, viene percepito quasi come un brand del Franciacorta; un prodotto “da maschi”, adatto al consumo “a tutto pasto”, ideale per l’abbinamento con formaggi e salumi; un prodotto che sa meglio interpretare certi territori pur essendo evidentemente più difficile da produrre. Secondo Gori, il “dosaggio zero” «è, in un certo senso, un prodotto di nicchia. E tale probabilmente rimarrà».
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