di Marco Bellentani e Gaio Giannelli (cuciniere Pozzo di Bugia, Querceta (LU))
Premessa: i Food Pirates nascono in Versilia e sono un’associazione naturale di persone esperte nei loro settori ed idee per promuovere la cultura enogastronomica, culinaria, naturale e tradizionale italiana
La cucina, un complicato labirinto di cui tutti parlano: dal chiacchiericcio social a quello televisivo, perdendo l’ancora che ci fissa alle solide basi da cui essa parte. Fuoco e materia prima, tutto il resto rischia di essere una falsificazione. Il primo tranello sta nell’uso dei cosiddetti prodotti definiti “top”: il più delle volte non lo sono, a volte non piacciono alla maggioranza, ma soprattutto sono spesso frutto di un’operazione di marketing che ne fa innalzare il prezzo (e il valore presunto). E questo succede sempre con maggior frequenza, con chef oramai ridotti ad essere testimonial, sponsor del prodotto. A questo livello lo sponsor comanda: è la morte di un genere professionale. Se X o Y dicono a Vissani, Cracco e compagnia bella che questo “è bono”, questo lo “è”. Ma è proprio in quel momento – nella ricezione della sponsorizzazione, nell’accettazione di un copione – che il loro lavoro di cucina perde di credibilità.
Facciamo due esempi lampanti.
Nell’argomento Carne la percezione della qualità varia a seconda di chi la distribuisce: spesso la stessa carne può vendersi ad un prezzo raddoppiato. La storia che si riesce a trasmettere è più importante del prodotto. Può farlo l’oste o lo chef in tv: ci vuole indubbia bravura, ma la nostra attenzione va alla ricerca. La difesa può essere solo l’assoluta credibilità del proponente (indi senza sponsor) o la nostra ricerca.
Formaggio. Perché devo consumare,anche al ristorante, prodotti semi – industriali? Sovente i formaggi sono ricchi di antibiotici e latte reidratato, così come quelli comuni al supermercato. Nel frattempo, il prodotto caseario del pastore, a latte crudo, sembra non riscontrare il gusto comune al contrario di un formaggio che definiremo “ruffiano”, scimmiottamento caseario di ben lontane tradizioni. Cosa ci offre davvero lo chef/oste? E’ questo la domanda che ci dobbiamo fare, senza essere diffidenti per partito preso, ovviamente.
Questo spunto ci consente di sottolineare come il prodotto di grandissima qualità, frutto di un’artigianalità pura, in rispetto del clima e della natura circostante – nel senso di come plasma il prodotto l’ambiente – abbia sempre un marketing molto debole. Il prodotto che si è discostato dalla logica industriale, si discosta anche da gusto “drogato”, allevato dei consumatori. Il marketing impone cos’è buono e cosa no. Di certo lo chef non andrà mai in tv a contrastare le leggi del marketing, del mainstreaming, lo fa – è la nostra unica domanda – nel suo ristorante? Usa noti distributori o uno stupendo gallo di campagna? In questo secondo caso, il gallo può avere diversi mesi o un anno d’età, tessuti e muscoli duri, odori forti. Trattare questa materia è ancor più difficile, perché è più problematica, più “viva” e stanno scomparendo i cucinieri che sanno dare del tu a queste cose. Domande: Ci piacerà? Ci Fidiamo?
Assistiamo, più preoccupati da bollette e tasse che da ricerca pura, all’accettazione da parte di molti chef del cosiddetto gusto “industriale”, che han ben cresciuto i suoi pargoli alla tv, e pare nascere una deriva solamente estetica nel piatto, pasto ideale di una critica gastronomica che tiene conto della presentazione, dell’ambiente e poco della materia prima. Il cuoco non sta dando più da mangiare a gente cosciente e punta più sulla vista, sull’instagrammabilità del piatto. Manca l’emozione e per giustificare il prezzo si stupisce con iperboli, ma il valore dello chef deve, oggi, essere rimesso in dubbio. Perché siamo circondati da una serie di piatti bellini e perfettini, ma freddissimi? Perché la pasta non deve essere più saltata come nelle nostre trattorie? Perché ci abbandoniamo ad un modello esterofilo? I germogli, i funghetti, i dettagli decorativi e, nel piatto, non c’è più sugo. Questo non rende di certo stupido il ritorno di alcuni al modello di trattoria e spiega come per la massa, il comfort food e il salotto borghese, spesso stellato, non abbia nessuna attrattiva. Non solo, ovvio, per il prezzo. Stiamo, in sostanza, falsificando la nostra cucina, togliendo identità e spessore. Non diciamo che contaminazioni non siano accette, ma nascono derive, ibridi improponibili che si tacciano di eccellenza. I lamponi nel risotto. Ormai pare che il processo sia irreversibile, a meno che il cuoco e il cuciniere tornino ad essere credibili per le loro reali abilità, sotterrando l’ascia dello sponsor e dissotterrando quella del proprio destino come promotore dei propri ideali di partenza. E’ vero che quando sei credibile alla gente puoi affibbiargli di tutto, hanno ragione i pubblicitari, ma fanno un mestiere incompatibile con la cucina. Abbiamo assistito alle ricette di Cracco per le patatine, ai burger di Bastianich che – c’è da dirlo – anche tra 10 anni saranno ancora commestibili; ma è proprio questa categoria che potrebbe e dovrebbe assumersi una responsabilità, una deontologia condivisa, ricordando che se conosce ancora qualcosa, lo conosce grazie alla storia della cucina italiana, alla trattoria e ai racconti di mamma e nonna, che non sono una frase per descrivere un modello di cucina, non sono spot banalizzati per descrivere la solita “rivisitazione della tradizione”, ma un DNA a cui mano e mente devono tributo e rispetto.
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