di Antonella Amodio
Una delle varianti più iconiche della pizza tradizionale è la “ruota di carro” che segna la storia e la cultura culinaria nel cuore pulsante di Napoli, insieme alla sua controparte, la “fina di pasta”. Questi due termini evocano immagini di una città che si adatta, innova e celebra anche nei periodi di ristrettezze economiche.
Mio nonno, nato nel 1915, ha vissuto guerre, carestie e tutto ciò che ha preceduto la ripresa economica del dopoguerra, il Piano Marshall e il miracolo economico tra gli anni ’50 e ’70. Preparava il pane in casa e la pizza nel ruoto con l’impasto avanzato, condita con pochi e semplici ingredienti a disposizione. Una delle sue grandi passioni era proprio la pizza, trasmessa a me come un’eredità preziosa. È da lui che per la prima volta sentii il termine “‘a rot’ ‘e carrett”, spiegandomi che era la pizza di condivisione preparata in alcune pizzerie di Napoli su richiesta specifica, condita spesso con ingredienti portati da casa. Questa pratica, particolarmente diffusa nel periodo post-bellico, rifletteva un’epoca in cui la creatività doveva fare i conti con la scarsità delle risorse, cercando di massimizzare gli ingredienti a disposizione.
La caratteristica distintiva della “ruota di carro” risiede nella sue dimensione generose, che straboccano dal piatto e nella sottigliezza della base. Uno dei principali esponenti di questa tradizione è la famiglia Condurro, che da cinque generazioni continua a preparare questa pizza a L’Antica Pizzeria Da Michele, situata tra i Tribunali e Forcella. Tradizionalmente, la ruota di carro prevedeva l’uso di due panetti, per un totale di circa 380 grammi, stesi fino a raggiungere un diametro di 35 cm, mediamente fine e pari alla grandezza della bocca del forno. Per infornare questa pizza dalle dimensioni considerevoli, veniva utilizzava una pala di legno speciale, chiamata “o captest” (le pale erano tre: una di ferro per girare la pizza, una per infornare la pizza di misura standard di 25 cm e un’altra per la ruota di carro). Il grande diametro rendeva però difficile il trasporto: se consumata a casa, la pizza veniva spesso portata via su grandi vassoi di alluminio dalla forma circolare, poi restituiti alla pizzeria, oppure, piegata in quattro e incartata (come la pizza a libretto), con il rischio che il condimento si spostasse, compromettendo l’uniformità del sapore. Infine, alcune pizzerie offrivano il servizio consegna e in quel caso si utilizzava la stufa, che garantiva sia la temperatura che l’integrità della pizza perché stesa all’interno.
Accanto alla celebre “ruota di carro” c’era un’altra versione, meno conosciuta ma altrettanto importante nella tradizione napoletana: la “fina di pasta”. Questa variante era la pizza a ruota di carro tirata ancora più sottile, con bordi appena accennati. Preparata dai pizzaioli su raccomandazione del proprietario della pizzeria per il cliente “buono”, la stesura del disco era un’arte che richiedeva grande maestria, poiché doveva essere sottile fino a diventare quasi trasparente, ma senza mai rompersi. Nonostante la “fina di pasta” sia meno documentata, essa vive nella memoria orale di chi ha vissuto il banco e il forno e tramandata attraverso generazioni. Mio nonno preferiva questa versione della pizza, e la sua testimonianza mi ha permesso di approfondire una parte della storia legata alla gastronomia napoletana che non ha ricevuto la stessa attenzione della celebre madre “ruota di carro”.
Autori come Alexandre Dumas e Matilde Serao hanno lodato la pizza napoletana nei loro testi, ma la “fina di pasta” non viene menzionata, poiché è emersa come una variante della stesura solo molto tempo dopo, probabilmente a partire dagli anni venti, mentre il poeta Velardiniello già nel 1500 descriveva attraverso le sue rime la ruota di carro.
Nel corso degli anni, la “ruota di carro” ha subìto diverse evoluzioni. Con l’aumento della popolarità della pizza napoletana e la conoscenza delle tecniche di preparazione, questa variante è stata adattata per essere più facilmente fruibile, riducendo il peso del panetto. Questo processo ha portato la ruota di carro ad assumere le sembianze della “fina di pasta”, una sottigliezza importante che vive ancora oggi nelle pizzerie di Napoli e non solo.
Antonio Pace, Presidente dell’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), racconta che la “fina di pasta” era un segno di grande abilità per il pizzaiolo, ma anche di rischio: ”Quando un pizzaiolo, stendendo il panetto per la ‘fin e past’, sfondava la pizza, era una vergogna. Mio nonno accanto al forno aveva un chiodo e quando il pizzaiolo bucava il disco, appendeva la pizza come segno di disonore.” Questo dettaglio racconta come la manualità e la precisione fondamentali nell’arte di fare la pizza abbiano determinato il riconoscimento UNESCO nel 2017 come parte del patrimonio culturale dell’umanità.
L’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN) ha sostenuto la candidatura e ha svolto un ruolo cruciale nella standardizzazione e nella promozione della pizza napoletana, regolamentata da un decalogo con specifiche chiare sugli ingredienti, le tecniche di preparazione, il metodo di cottura e le caratteristiche finali della pizza.
La pizza a “ruota di carro” continua ad essere amata e apprezzata per la sua base sottile che esalta il sapore degli ingredienti, anche se le dimensioni sono state state ridotte rispetto alla versione originale. Ma lo spirito e la tradizione di questa pizza rimangono intatti, alimentati dal ricordo e dalla dedizione di chi la prepara.
Mi lascio tentare da una piccola provocazione: per rendere giustizia alla tradizione, sarebbe giusto aggiungere alla denominazione anche la “fin e past”? In questo modo, si onorerebbe un aspetto dimenticato ma fondamentale della storia della pizza napoletana.
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