Uva: fiano
Fascia di prezzo: da 5 a 10 euro franco cantina iva esclusa
Fermentazione e maturazione: acciaio
All’inizio ti sembra di sapere tutto, fai citazioni, riferimenti, metti i puntini sulle i, pensi che chi ti ha preceduto non abbia capito nulla, spari sentenze, emetti fatwa. Poi entri piano piano davvero dentro l’argomento, i riferimenti non ti servono più per esibire la tua erudizione, ma per aiutare chi ti legge o ascolta ad avere una traccia in più da approfondire. Infine prendi atto che la materia, che hai avuto per anni sotto gli occhi, non sarai mai in grado di padroneggiarla se non attraverso un duro, ampio e lungo lavoro di gruppo che dovrà procedere per approssimazione successiva.
Invidio profondamente chi passa dalla Borgogna all’Alto Piemonte sino a toccare i cru libanesi con sicumera trionfale. A me basterebbe capire tutto di Lapio. Per esempio come un territorio piantato ad aglianico per decenni sia diventato improvvisamente conosciuto per il fiano solo negli ultimi vent’anni.
Per questo sarebbe necessario fare una seria analisi scientifica dei suoli (che manca), dei cloni di aglianico usati in passato, quelli di fiano in uso (che mancano). Intervistare gli ultimi contadini, ripercorrere le tappe di questa ultima fortunata stagione della viticoltura irpina. Parlare con Antonio e Walter Mastroberardino.
Organizzare questa ricerca su basi volontarie non è possibile, e questo dovrebbe fare un ente pubblico serio invece di fare i putipù alla Nappi del 2009.
Tracce di incongruenza logica sono:
l’esistenza di un vitigno a bacca bianca in un territorio rossista
la presenza di fiano e non di coda di volpe che invece caratterizza appunto l’areale taurasino
il dato che Lapio rientri comunque in due docg
l’assenza di produttori rossisti in un comune che sta nel cuore di un’areale rossista
“Questo – racconta Ercole Zarrella – era un territorio di aglianico. Si coltivava solo questo, mio nonno, mio padre. Tutti. Sì, un po’ di fiano c’era, ma lo usavano i contadini per berlo dolce, rifermentava in bottiglia e aveva note gentili simili al moscato. Anche se meno intense. Non so perché, fu Mastroberardino che iniziò a chiedercelo negli anni ’80, dopo il terremoto. Sempre di più, vendemmia dopo vendemmia. E fu lui a vinificarlo secco imponendo la svolta. Da allora, piano piano, tutti hanno iniziato a togliere aglianico e a mettere fiano. Mio padre prese questa decisione, lo ricordo bene, nel 1990”.
Riavvolgiamo il nastro: sono gli anni della crisi del metanolo, per la prima volta inizia in Italia la irrefrenabile crisi del consumo di vino che prosegue ancora oggi mentre la cucina si alleggerisce. La Mastroberardino punta sui bianchi, le splendide bottiglie renane a cui siamo davvero tanto affezionati. L’azienda di Atripalda riesce proprio in quegli anni a lanciare Fiano e Greco fuori dall’ambito provinciale, iniziandoli a imporre sui ristoranti della Costa.
Erano gli anni ’80, l’Italia usciva dal decennio sofferto precedente, ha voglia di consumare senza sensi di colpa, divertirsi, cambiano le abitudini. L’Occidente svolta, pensa a difendersi, la fase in cui si costruiscono barriere per godersela, ci sono Reagan, Thatcher, la new wave è la colonna sonora. Insomma, viva la leggerezza del declino.
E’ proprio in questi anni di trasformazione che la Mastroberardino riesce a cogliere i mutamenti, fa il salto in avanti proponendosi come leader regionale incontrastato. Sono gli anni della creazione della viticoltura irpina così come la conosciamo oggi, dalla Valle del Sabato sparisce lo sciascinoso e arrivano i bianchi.
Nel 1988 nasce la prima azienda, è quella di Nicola Romano. Nel 1994, la rottura tra Walter e Antonio Mastroberardino è ormai consumata e formalizzata con la nascita di Terredora che diventa prima produttrice a Lapio dove viene piantato il primo e per molti anni unico vigneto di falanghina, apre Clelia Romano. Sarà questa cantina a dare identità all’areale di Lapio su cui si è iniziato a ragionare da un paio di anni. In sostanza, la coltivazione è stata una intuizione dell’azienda di Atripalda quando i due fratelli erano ancora insieme, la conoscenza del territorio comunale extra regione è dovuta a Colli di Lapio. Più o meno la stessa dialettica che abbiamo avuto con Caggiano a Taurasi, Molettieri a Montemarano e Ferrara a Tufo. Queste piccole aziende hanno avuto il merito storico di imporre la necessità di approfondire i territori incrociando una esigenza culturale di consumo profondamente diversa dal passato. Quella che vuole vedere le vigne, fotografarle, toccarle, camminarci. E poi magari bere un bicchiere e non una bottiglia. Immaginando l’insieme della filiera enologica irpina come un solo organismo aziendale, potremmo dire che questi piccoli sono stati i cru delle grandi aziende. Una semplificazione giornalistica, certo, ma vista dall’altro sembra così. Il discorso di zonazione non è stato ancora pienamente assorbito dalle cantine più grandi. Però il processo ormai è iniziato. Del resto basti pensare a come spesso la realtà dei dati sia esattamente opposta alla lettura enunciata: sino a pochi anni fa la seconda varietà coltivata in Campania era il Sangiovese!
Il resto è storia recente: dieci anni dopo nasce Rocca Del Principe, nel 2007 Filadoro.
La famiglia Zarrella da sempre coltiva uva e produce vino. Ercole, insieme alla moglie Aurelia Fabrizio e al cognato Antonio nel 2004 ha deciso di imbottigliare lavorando quasi esclusivamente sul Fiano. La proprietà è di cinque appezzamenti sparsi nel territorio comunale. Il primo, più consistente e compatto, è ad Arianello su un’altezza che varia dai 500 ai 600 metri, piantato su suolo argilloso mentre i due a Contrada Lenze hanno un suolo sciolto e friabile, argilloso a poco meno di un metro di profondità. Altri due a Tognano con vecchi impianti a raggiera e Campore, a quota 500. Rese sempre basse, massimo 70 quintali nelle migliori annate, e allevamento a guyot. Si concima una volta ogni tre anni.
Lo storico della produzione è sostanzialmente breve. Insieme a Lello Tornatore, durante la nostra visita per Slow Wine, abbiamo provate diverse annate. Dal 2004 al 2006 si è lavorato un poco sul residuo zuccherino. Poi l’arrivo di Carmine Valentino e la svolta.
Fiano di Avellino 2004. Giallo paglierino carico, il naso parte con pera sciroppata, un po’ di stanchezza ossidativa ma anche toni di idrocarburi che ricordano i vecchi Fiano di Vadiaperti. Le note evolute tolgono comunque eleganza al vino che viene salvato dalla vena acida possente e che riesce a far salivare. In bocca, dopo la punta dolce, riemerge la sapidità, il palato è pieno, lungo, intenso, la chiusura abbastanza netta e pulita. Voto 81/100
Fiano di Avellino 2006. Annata sofferta, il naso non è a posto, note tostate e di salamoia. La bottiglia zoppica. Al palato si presenta fresco, ma assolutamente magro, finisce a centro lingua. Voto 70/100
Fiano di Avellino 2007. E’ il Fiano dei Tre Bicchieri, una intuizione di Paolo De Cristoforo di cui siamo più convinti adesso che prima. Si tratta della prima lavorazione senza residui zuccherini, e meno male. La polpa è piena, al naso c’è frutta gialla, note balsamiche e tracce piacevoli di mandorla, ancora fiori, acacia. In bocca il vino è molto ampio, lungo, intenso, c’è molta ciccia ma anche il questo caso il miracolo avviene con l’acidità ben preservata dal protocollo di Carmine e che risolve l’annata. Non sappiamo prevedere l’evoluzione, di sicuro è un vino che ci riporta a quelli di Clelia Romano (penso al 2001 soprattutto): tra l’altro le due aziende sono proprio affiancate. Tutto lascia presagire il cammino un naso dolce ricompensato dalla sapidità imperante. Una curiosità: si vendemmiò alla fine di settembre, con 15 giorni di anticipo rispetto alla media. Voto 85/100
Fiano di Avellino 2008. Il nostro preferito. Fresco, note floreali bianche e di frutta appena colta, lavanda, sentori di erba falciata e di roccia bagnata. In bocca è una sciabola, molto simile al 2008 di Picariello. Scattante, pieno, tonico, lungo, inteso, dissetante. Sembra il 2007 dimagrito insomma. E’ quello che preferiscono anche Ettore e la figlia Maria Rita, in pieno corso sommelier con Ais Avellino, che si muove nell’azienda seguendo il padre e la madre studiando lettere all’Università. Voto 88/90
Fiano di Avellino 2009. Che dire? Come Slow Wine ha avuto la menzione di Grande Vino. A mio giudizio, come gusto personale, si colloca sotto il 2008 e sopra il 2007, ma lo stile lo assimila al millesimo precedente. Un vino in ogni caso completo e complesso, di lunga portata. Voto 86/100.
Fiano di Avellino 2010 (prova da vasca). Si conferma la grande annata per il Fiano, grandissima acidità, superiore a tutte le precedenti, rinfrancata da buon corpo. Le uve sono state raccolte un paio di giorni prima delle grandi piogge dello scorso ottobre che tanti problemi hanno creato al greco e soprattutto all’aglianico. Ricorda molto la 2008 ma la supera per potenza e spinta complessiva della beva. SV
Considerazioni finali
Carmine Valentino sa come fare i bianchi d’altura. A parte la bottiglia 2006, notiamo una bella progressione nel vino. Ma il bonus va al proposito di cui ci ha parlato Ercole: uscire sempre più tardi. “Ho letto quello che scrivi. Ed è vero. Bisogna almeno apsettare un anno. Ma è anche poco”. Infatti. Il 2010 è ancora in vasca, il 2011, incrociando le dita, scapolerà alla fine del 2012 se non proprio nel 2013. C’è poco da fare: chi lavora bene non ha problemi, soprattutto i Fiano di annata sono apprezzati dal mercato del Nord e all’estero e questa è una garanzia di crescita e di…pagamento:-)
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