Ieri grandissima serata nella sala dei Baroni al Maschio Angioino. Al centro della discussione, organizzata da Maurizio Cortese per presentare il libro Il Pane è Oro, l’etica dei consumi e il nuovo ruolo del cuoco moderno, al centro della riflessione anche per la prossima edizione di Lsdm.
Avevo preparato un intervento scritto. Lo metto a galleggiare nel minestrone della rete.
di Luciano Pignataro
In poco meno di mezzo secolo la nostra cultura è passata dall’etica del recupero alla necessità del consumo. Un passaggio fondamentale avvenuto tra gli anni ’60 e ’70 che segna la vittoria della cultura urbana su quella rurale, legata alla stagionalità e all’incertezza del domani.
Oggi ogni progetto politico è affidato all’aumento dei consumi, a prescindere dalla qualità e dal bisogno. Anzi, il bisogno si crea se non c’è e con esso il nuovo mercato.
Il cibo è la metafora di questo profondo cambiamento del dna degli italiani. Tutta la cucina italiana, dal Nord al Sud, è stata segnata dalla cultura del risparmio, del recupero, del pieno utilizzo di tutto quello che è edibile, dagli animali ai prodotti della terra e del mare. Utilizzare tutto, a prescindere, era una delle condizioni della sopravvivenza delle famiglie numerose
Da sempre la cucina dei ceti più ricchi è improntata allo spreco, ossia al consumo solo delle parti migliori di un animale, di un pesce, di un prodotto della terra, eliminando le altre, considerate non pregiate.
Su questo scarto si è costruita la cucina popolare italiana, ossia nella capacità di insaporire il nulla. Napoli, grandissima metropoli, ha elaborato in modo particolare questa cultura avendo la caratteristica di inventare una cucina di recupero urbana, non rurale.
Non a caso potremmo definirla la cucina condita dal desiderio di carne, dalla ricerca del profumo animale in piatti sostanzialmente vegetariani, come la genovese, il ragù, la minestra maritata che in mancanza d’altro diventano subito pasta e cipolle, pasta al pomodoro, minestra di verdure. Lo stesso vediamo nel rapporto con i legumi, la cotica nei fagioli, la pancetta nei piselli e nella pasta con le fave.
Le vestali di questa cultura sono state le nonne, anche le mamme, se intendiamo le donne che adesso hanno dai 60 anni in su perché le figlie del baby boom hanno iniziato ad abbinare il lavoro fuori casa al ruolo di casalinga e l’abbondanza, l’introduzione del frigorifero, l’arrivo dei prodotti industriali attraverso Carosello, hanno progressivamente trasformato la cucina casalinga in uno stile fusion pop sempre più lontano dalle radici e dalle tradizioni.
In particolare, il frigorifero è stato il primo strumento di omologazione di massa della cucina, tendendo ad abolire l’uso del fresco, l’importanza della conoscenza della provenienza dei prodotti, favorendo la programmazione di una spesa settimanale.
Ovviamente non pensiamo che si debba tornare indietro, ma è necessario un uso consapevole di questi strumenti, un uso etico, che spinga a rispettare l’ambiente, un bene di cui noi tutti siamo azionisti, a non dimenticare mai il ruolo sacro del cibo e al suo rispetto. Non a caso era considerato blasfemo in ogni famiglia buttare il pane e non riutilizzarlo in qualche modo.
Oggi questo ruolo di avanguardia etica gastronomica spetta ai cuochi, a cuochi come Massimo Bottura, che sanno cucinare un filetto alla perfezione senza per questo dover buttare il resto del pesce o dell’animale.
Mentre tanti giovani cuochi oggi, influenzati da Masterchef, sono affascinati dalla tecnica e dall’uso di prodotti già pronti che hanno di per se sulla etichetta la scritta “risultato dello spreco”, la parte alta della gastronomia mondiale indica bene la direzione in cui si deve andare: non c’è gusto senza etica.
Lo sapevano a livello incoscio, ancestrale, i contadini, lo sanno adesso i migliori cuochi del mondo che dedicano la loro ricerca all’uso completo del cibo, alla lotta allo spreco, al riutilizzo di quello che non viene usato nella stessa giornata.
Del resto, quanti piatti nascono da questa cultura? La maggior parte.
Il primo comandamento della lotta allo spreco è il recupero del tempo necessario a realizzare qualcosa. Oggi, oltre al mito del consumo, viviamo in quello della velocità, ma spesso di tratta di movimento senza dinamismo perché quel che recuperiamo in termini di ore lo perdiamo in conoscenza, consapevolezza, capacità di avere una visione completa della cose.
Non c’è lotta allo spreco se non si perde tempo a sbucciare, pelare, spremere, sfasciare un animale, impastare, sfilettare un pesce, tagliare una verdura
Oggi questo compito spetta alla nuova gastronomia, perché viviamo nell’era del mito del cuoco.
La storia ha le sue radici nel mito, di una narrazione perfetta che, incurante di fonti verificabili, ridisegna il passato per costruire il futuro, ma soprattutto per giustificare il presente.
Nell’era della società di massa i miti circolano molto più facilmente e, al tempo stesso, si moltiplicano sino a dare a ciascuno di noi la possibilità di sognare di diventare noi stesso un mito, eventualità impensabili quando l’oggetto della storia erano dei o semi dei, talvolta uomini.
Oggi miti si moltiplicano e si diffondono molto più rapidamente.
La storia della gastronomia perde il carattere di espressione del territorio per puntare l’attenzione sulla tecnica e sul tempo, si passa dalle ricette popolari a quelle elaborate dallo specialista, dal cuoco. Nonostante la ricchezza e la profondità del mutamento avvenuto in quegli anni, l’alta cucina viene ancora vista dalla massa come altro da se, come un circolo dorato nel quale non è poi così necessario entrare a far parte. L’apprendistato avviene a bottega, inizia però il rovesciamento dei desiderata tra sala e cucina e, con esso, l’incredibile declino di cui oggi scontiamo le cambiali della pessima qualità del servizio nella maggior parte dei locali italiani.
Ecco perché oggi siamo qui per discutere di qualcosa di veramente importante. Cuochi come Massimo Bottura hanno la responsabilità di dare l’esempio ai più giovani. C’è chi vive il proprio lavoro per fare soldi e chi pensa che i soldi servano a fare meglio il proprio lavoro: Massimo Bottura è parte, lo dimostra ogni giorno, della seconda categoria. Non ha cercato la scorciatoia della tv, non ha aperto replicanti Francescane, come i grandi cantautori degli anni ’70 ha intuito che il vero potere non è l’eccesso di visibilità (terzo mito dopo il consumo e la velocità in cui siamo soffocati) ma la giusta visibilità.
Massimo non si erge a maestro, lo è. Recuperando il passato, guarda al futuro etico della gastronomia: la figura del gourmet che si tuffa nel foie gras bevendo Sauternes è sempre meno attuale e sempre più una machera della Commedia Italiana.
I critici e i giornalisti che hanno compreso questo processo in corso, resteranno al passo dei tempi, gli altri continueranno a parlare e a scrivere sulla cottura dei maccheroni.
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