Questa settimana l’inserto Cibo di Repubblica curato da Giuseppe Casciaro e Antonio Scuteri apre con un articolo di Vizzari che fa il punto sulla situazione della ristorazione italiana e sul rapporto tra tradizione e innovazione. Lo riproponiamo volentieri ai nostri lettori con una osservazione: l’incredibile parallelismo tra il dibattito sul vino e quello sulla cucina.
di Enzo Vizzari
Alcuni cuochi ci hanno creduto, ancora ci credono e continuano un coerente percorso di ricerca, di sperimentazione, di provocazione. Altri, più o meno in buona fede, dopo aver cavalcato la moda, sono ora disorientati, spiazzati: una certa avanguardia fondata sulla “chimica”, sull’azoto, sul gastrovac, ma anche più semplicemente su piatti costruiti con dieci ingredienti meglio se esotici e/o stravaganti, perde terreno, non incanta più.
O incanta soltanto quella pattuglia di critici a-critici pronti da anni a esaltare chi mette in tavola gadget stupefacenti anziché piatti buoni da gustare. La crisi dell’economia, e la conseguente riduzione dei budget destinati dalle famiglie al ristorante, certo stanno aiutando a far pulizia e giustizia di ristoratori improvvisati e di cuochi d’artificio.
Cucinare e servire trippa, pasta e fagioli, spaghetti al pomodoro o tajarin costa al ristoratore meno che ricercare e manipolare cappesante, astici, spigole pescate all’amo. Ma soprattutto è sempre più esplicita la domanda da parte del “cliente normale” di una cucina comprensibile, meno artefatta, meno spettacolare, ma più immediatamente godibile, fatta appunto per piacere e non per stupire.
I cuochi più dotati e più attenti se ne sono accorti da tempo e, in varia misura, per convinzione o per convenienza, ripensano la propria cucina, ne ridefiniscono l’identità e in molti casi si riposizionano, riscrivono i menu. Qualche conversione, anzi: inversione di marcia a 180 gradi, è suonata premonitrice se non sospetta.
Heston Blumenthal, caposcuola della cucina molecolare, quando ha aperto Dinner al Mandarin di Londra, ha creato una carta ispirata alle ricette della tradizione inglese (?!) medievale.
Da noi Gianfranco Vissani s’è guadagnato l’epiteto di “furbetto del mestolino” (copyright Il Fatto Quotidiano) non solo per aver urlato, dopo vent’anni di televisione, “Basta con la cucina spettacolo”, ma anche e soprattutto per aver invocato un ritorno alla cucina semplice, ai prodotti primari della terra, per aver condannato “chi per ricavare un cubetto d’anatra spreca un’anatra intera”. Salvo poi reinventare una parmigiana di melanzane arricchita da mousse di liquirizia. In nome, è chiaro, del ritorno alla cucina semplice. Davide Scabin, del Combal.Zero di Rivoli, al contrario, sostiene che non ci sia mai stata rottura nel suo cammino ma evoluzione consapevole: formazione classica con marcata impronta francese e forte legame con i prodotti e la cucina della sua regione (il Piemonte) nel primo ristorante; poi, fase creativa spinta con piccoli capolavori di genialità e di gusto come il cyber egg, la zuppizza, la check salad; infine, rilancio di una fruibile cucina tradizionale in chiave moderatamente creativa.
Dice Scabin: “Oggi come ieri ben salde restano le mie fonti di ispirazione, che mi fanno prediligere i primi piatti, i risotti e le paste, e rinverdire i classici.”. E in effetti Vialardi sarebbe fiero della versione scabiniana della finanziera, i risotti (con carciofi e foie gras o con lumache e aglio dolce) sono veri, canonici risotti, il soufflé di maccheroni con ragù e fonduta di Grana Padano sembra uscito da una ricetta dell’Artusi. Così come sono cammei di cucina identitaria ma contemporanea i piatti che Massimo Bottura mette in tavola a Modena alla Francescana e poi porta in giro per il mondo ripetendo il motto “Vieni in Italia con me”: cotechino al Lambrusco e sbrisolona, compressione di pasta e fagioli, tagliatelle al ragù…
Gli esempi, amplificati dai media, di Bottura e Scabin, di Massimiliano Alajmo (cannelloni croccanti di ricotta e mozzarella di bufala con passata di pomodoro) o di Mauro Uliassi (zuppa di vongole e coriandolo fresco), di Antonino Cannavacciuolo a Villa Crespi (tagliatelle di fagioli, aglio, olio e bottarga) o di Ilario Vinciguerra a Gallarate (pasta, patate e cozze), tutti protagonisti della “nuova cucina italiana”, influenzano ovviamente le scelte dei ristoratori che ogni giorno si confrontano con un mercato fatto non di sofisticati gourmet ma di persone che vogliono/devono mangiare semplice, buono, possibilmente sano e soprattutto a prezzi ragionevoli. Ed è forte e preciso, in questo senso, il messaggio che giunge ai cuochi più giovani: studino, provino e poi dimostrino di saper praticare i fondamentali della nostra cucina prima di – eventualmente – imboccare le vie dell’innovazione. Perché, con un patrimonio di prodotti e di cultura come il nostro, c’è poco da inventare o da riscrivere, basta aggiornare tecniche e strumenti, e vivere nel tempo.
Ps: su questo pezzo Bonilli ha lanciato un polemica un po’ claustrofobica che potete leggere cliccando qui.
Uso questo termine perché è attaccata al cenno che Vizzari fa su Blumenthal senza entrare nel cuore dell’articolo, come fa notare Scuteri in un commento.
Io l’altra sera sono finito in una piccola osteria di paese aperta da un ragazzo, un altro, che mi ha fatto questo menu: bruschetta con friarielli, minestra maritata, frittura napoletana, candele con ragù di capra, agnello al forno e dolce. Ossia, menu identitario che in quella zona avrò mangiato nmila volte da sempre. Con una differenza: il ragazzo è stato in molte cucine, tra cui una stagione intera al Pellicano. E i piatti con tecniche moderne erano straordinariamente più buoni pur essendo gli stessi della tradizione rurale locale. Il senso di quello che è avvenuto in Italia, al netto delle avanguardie, potrebbe essere questo, al netto della ricerca delle vera avanguardia e non delle mode caricaturali.
C’è da chiedersi, piuttosto, perché in gran parte degli alberghieri continuano ad uscire risotti in cialde di parmigiano e perché la formazione vera si può fare solo nelle cucine private. Ma oggi è giornata elettorale, ed è meglio non aprire questo vaso di Pandora. (l.p.)
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