La vita è bella perchè anche quando pensi di padroneggiare una materia c’è sempre qualcuno capace di regalarti nuove chiavi di lettura. L’intervento del lettore Carmine Capacchione pubblicato ieri ne è un esempio. A differenza di molti colleghi critici, degustatori e giornalisti, io non mi sono avvicinato al mondo del vino attraverso la frequentazione in enoteca, ma lavorando per la pagina Agricoltura del Mattino. Per quanto paradossale possa sembrare, le enoteche sono state per me sempre un mondo residuale, un luogo dove fare una verifica dei prezzi di mercato e magari prendere qualche bottiglia straniera e del Nord. C’è chi analizza il vino solo se lo trova in questi punti vendita, ma per me è un metodo assolutamente fatuo, onanistico (Fabio direbbe segaiolo) comunque non mi interessa l’etichetta in quanto tale se dietro non c’è qualcosa di vero da raccontare oltre l’analisi organolettica, una emozione capace di farmi sentire l’ambiente. La settimana scorsa con una quindicina di grandi amici e bravi degustatori abbiamo passato in rassegna circa 550 etichette campane, calabresi e lucane per la guida Vini Buoni d’Italia 2008. Quando siamo scesi nella sala del Savoy Beach di Paestum in cui erano conservate a temperatura controllata da alcuni giorni mi sono davvero emozionato vedendo 1100 bottiglie allineate come i soldati di creta cinesi: ciascuna mi ricordava il viso del produttore, la cantina, il paese, un momento vissuto, una emozione, una persona, un piatto, una ricorrenza, era come volare sui territori con Google Earth e zoomare di tanto in tanto: sono fortunato, ho pensato, ad aver potuto approfondire così la conoscenza di ogni collina e di ogni vigna negli ultimi quindici anni grazie a queste piccole e indifese bottiglie che ora attendono di essere valutate e giudicate. Come sarebbe stato diverso il mio rapporto con loro se le avessi esaminate come si fa in laboratorio! Ogni risultato e la conseguente scopritura della bottiglia è stato un fiorire di commenti, ciascuno di noi sapeva bene cosa vuol dire per una azienda riuscire ad arrivare in finale dopo anni di sacrifici e investimenti, non a caso l’anima commerciale di alcune cantine si rivela sino in fondo anche in queste degustazioni coperte perché i vini sono buoni ma banali, fatti come un format televisivo al di là di dove sono piantate le viti e delle caratteristiche delle persone impegnate a coltivarle. Tutto questo mondo mi è sempre mancato in una enoteca ed è per questo che raramente mi sono occupato di questo aspetto, il finale, della filiera agroalimentare. Un mio limite rivelato dalle osservazioni del lettore. Il fatto è che anche alla maggior parte dei proprietari di questi punti vendita manca la conoscenza del territorio di cui ho parlato prima, in una parola acquistano dai rappresentanti e spesso non hanno alcun rapporto diretto con l’azienda. Il che può essere giusto per le realtà di grandi dimensioni, ma profondamente errato quando parliamo di cantine piccole o medio piccole che sono non a caso la fascia che difficilmente si trova, a meno che non si siano affermate attraverso le guide specializzate. Per questo motivo l’enoteca è il luogo della conferma, non della sorpresa, per lo meno ad un certo livello di conoscenza. In Italia l’arrivo su uno scaffale di una bottiglia è la consacrazione di un successo già raggiunto, non un giro di campo per riscaldarsi: ecco perché ritengo che la maggior parte delle enoteche abbia sicuramente tutto quello che c’è da bere di buono, ma scarso rilievo alle esigenze dei palati più raffinati, quelli che amano entrare nel territorio, scoprire nuove aziende, provare nuovi sapori. A questi non resta che una strada: scarpinare per colli e montagne. Il motivo di questa situazione, concordo con Capacchione, di estrema debolezza culturale e di scarsa educazione commerciale, è che in Italia non esistono i negociant di stile francese, coloro cioé che non solo fungono da mediatori ma che curano invece anche la parte finale dell’affinamento in bottiglia nei propri locali, capaci cioé di guadagnare sulla scommessa evolutiva e qualitativa. E sono pochi gli intermediari che girano invece di restare seduti sempre sulla stessa etichetta. Leggendo questo intervento mi sono ricordato di una persona che non c’è più: si chiamava Dom Florigi e aprì la sua piccola enoteca al porto di Acciaroli nel Cilento, un posto magico e ricco di fascino oltre che di turisti con alta propensione alla spesa perché è uno dei pochi scali a Sud di Salerno attrezzati per imbarcazioni più grandi. Lui avrebbe potuto diventare miliardaro vendendo all’inizio degli anni ’90 Pinot Grigio a gogò, Brachetto e altre amenità, invece diede fiato a giovani allora sconosciuti come Luigi Maffini, Alfonso Rotolo, Bruno de Conciliis, ai primi bianchi delle giovani aziende irpine come Vadiaperti che qui riuscirono a vendere le prime bottiglie quando si riteneva impossibile bere buon vino prodotto in Campania. La curiosità e il sogno di cambiare sono stati la forza di chi ha vissuto il ’68. Ecco allora cosa manca davvero nel circuito di vendita, raro ma non difficile, da trovare anche nella ristorazione dove invece la vivacità culturale è più marcata. Questa situazione accentua il divario tra la fascia media e quella alta dei consumatori, intendo cioé tra coloro che amano bere un buona bottiglia e quanti, invece, approfondiscono culturalmente questa passione. L’esempio del Sassicaia citato da Capacchione è stata quasi una folgorazione: prima era un tratto distintivo da enotecario aggiornato avere Incisa della Rocchetta sullo scaffale, adesso questa bottiglia, se non inserita in un contesto di approfondimento territoriale, è il richiamo per allodole ai cafoni arricchiti, leggi turisti della mafia russa in giro per la Costiera Amalfitana o industrialotti veneti con stabilimento in Romania. E’ sicuramente un esempio estremo, ma calzante di come sia cambiata la percezione, ripeto nella fascia alta dei consumatori, quella acculturata, sulla funzione delle enoteche e della proposta dei grandi marchi che forse per aver giocato troppo su se stessi e poco sul territorio negli anni ’90 oggi scontano un riflusso che va dal benevolo <troppo banale> e <già bevuto> al draconiano <vino taroccato>. La mia ammirazione per aziende storiche come Mastroberardino, Biondi Santi, De Castriis, Gaja, è aver percepito questa svolta già da qualche tempo adeguando ad essa la loro comunicazione commerciale. Ecco, allora, la necessità del pubblico: solo in una struttura pubblica, come sperò sarà l’enoteca di Taurasi, potranno avere voce tutti i produttori, ma, devo aggiungere, anche se non credo assolutamente nella capacità catarsica del mercato di regolare al meglio tutto come invece l’attuale sinistra (?) di governo, anche un privato intelligente può lavorare in questa direzione come mostra ad esempio la vicenda del Triple A del mitico Luca Gargano. Io so cosa vorrei da vecchiarello, quando non potrò più guidare: una grande enoteca in città con tutti i prodotti del territorio oltre che italiani e stranieri e, nei piccoli centri, scaffali con le aziende del posto. Chissà.
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