di Raffaele Mosca
Questa intervista è la prima di una serie dedicata alle storiche enoteche romane. Il protagonista è un giovane enotecario romano: Federico Ceccarelli, nuova leva de “ IL Goccetto”, storico winebar in Via dei Banchi Vecchi, a due passi da Campo de’ Fiori. Con Federico abbiamo fatto due chiacchiere su passato, presente e futuro della sua attività e del vino a Roma.
Federico, cominciamo dalla situazione attuale. Come vi siete organizzati per far fronte alla crisi dovuta alla pandemia? Quale escamotage avete trovato?
Mah, diciamo che al centro storico trovare escamotage non è facile. Il problema è che mancano i clienti, perché la maggior parte delle case in zona erano in affitto a turisti o persone di passaggio che sono andate via. Abbiamo comunque provato a resistere con l’ asporto, anche di cibo, che ha funzionato, ma di certo non ha compensato tutto quello che abbiamo perso. Per fortuna abbiamo anche dei clienti affezionati che vengono sempre a comprare qualche bottiglia da noi. Diciamo che viviamo alla giornata, ma ci riteniamo comunque fortunati, perché riusciamo sempre a portare il pane a casa.
Voi siete stati tra le enoteche/wine bar di Roma nell’accezione moderna. Raccontaci qualcosa della vostra storia
Noi, insieme a Trimani, Bleve e Cavour 313 abbiamo cominciato quando non esisteva ancora una cultura del bere bene a Roma. Hanno cominciato mio padre e mia madre nell’83 (tre anni prima della fondazione del Gambero Rosso, ndr) : si erano appassionati al mondo del vino, che in quel momento stava iniziando a crescere. Hanno aperto questa bottega e diciamo che poi sono cresciuti di pari passo con il vino italiano, soprattutto degli anni 90’, nel corso dei quali c’è stato il passaggio da enoteca che vendeva solo al dettaglio a enoteca moderna che fa anche aperitivo e servizio al bicchiere. Da qui sono passati i grandi giornalisti che emergevano in quegli anni, i fondatori delle riviste, i sommelier più importanti. Penso per esempio a Daniele Cernilli, nostro amico e cliente storico, che è venuto qui dai primi giorni e non si è più staccato, e con lui tanti altri, compresi alcuni produttori che oggi sono molto famosi.
Insomma siete stati spettatori del “making of” dell’attuale mondo-vino. Tu rappresenti la nuova generazione, la seconda. Da quanto tempo sei subentrato?
Ho cominciato una decina di anni fa, dopo aver fatto il triennio FIS (che al tempo era AIS). Ho scelto di seguire la tradizione di famiglia perché è un locale che ha dato molto e volevo dare anch’io il mio contributo.
Com’è cambiato l’ approccio al vino dei vostri clienti negli anni? Cos’è cambiato soprattutto nella selezione che offrite?
Il mondo del vino cambia spesso, forse un po’ un troppo spesso. Dai vini tradizionali di quelle poche, grandi aziende che avevano successo prima si è passati alla ricerca dell’azienda piccola, sconosciuta, della bottiglia numerata, della “chicca”, del vino insolito che ha una storia particolare da raccontare.
A livello di spesa c’è stato un cambiamento? Anche sulla mescita, magari
Sicuramente. Diciamo che è venuta fuori una divisione ancor più netta tra due fasce: quella degli appassionati e quella delle persone meno interessate che magari inseguono le mode. La seconda categoria oggi punta su vini leggeri, facili, disimpegnati, relativamente economici. Gli appassionati, invece, fanno domande, sono sempre in cerca di cose nuove e sono disposti a spendere di più se riesci a stimolare il loro interesse.
Qual’è il vino che vendete di più (in tempi normali, ovviamente)?
Il Prosecco. E’ tra i pochi vini che non sono mai passati di moda. Sul lato dei fermi Pecorino (abruzzese) e Ribolla sono diventati un po’ i “must” da aperitivo.
C’è qualche azienda che funziona particolarmente bene?
Si, per quanto riguarda il Pecorino Cataldi Madonna (che abbiamo intervistato da poco, ndr). Il loro Giulia va sempre forte.
E sul fronte dei rossi? Qual’è il vino che funziona meglio?
Mah, il mercato dei rossi è veramente vario: va un po’ di tutto. Sicuramente il Pinot Nero è un jolly, perché è scorrevole, fruttato, funziona benissimo alla mescita. Ovviamente non Borgogna, perché dovresti alzare un po’ troppo il prezzo, ma in Alto Adige ne trovi tanti di buoni e abbordabili.
Comprendo. Prima di questa sciagura avevate più clienti italiani o più clienti stranieri?
50 e 50. Era un bel meeting point questo locale. Speriamo che torni così.
Quali sono secondo te i vini che hanno promosso la cultura del bere bene su Roma negli ultimi decenni?
Bella domanda. Penso che comunque abbiano giocato un ruolo di prim’ordine i vini dell’Italia centrale: gli abruzzesi, il Verdicchio, che ha un qualità prezzo-ottimo e piace molto agli intenditori, e poi i bianchi irpini, e, negli ultimi anni, i vini laziali, che finalmente cominciano ad avere una fetta di mercato significativa.
Ecco. Come ti comporti con i vini del Lazio? Quali proponi ai tuoi clienti e quali sono i più quotati?
Ora come ora riesco a vendere tanto Frascati. E mi diverto anche a servirlo alla cieca per far capire quanto siano distanti alcuni Frascati prodotti oggi dallo stereotipo, dalla concezione che molta gente ha di questo vino bistrattato. In realtà il Frascati, se fatto bene, è un grande vino: penso al Filonardi di Villa Simone o all’ Abelos di Luigi de Sanctis, presidente FIVI Lazio. Sono vini ottimi.
E sul fronte dei rossi? Vedo sullo scaffale uno dei miei rossi laziale preferiti: il Cesanese Silene di Damiano Ciolli
Si, diciamo che nel Lazio si è puntato molto sui vitigni internazionali. Io personalmente propendo più per gli autoctoni e, soprattutto, per il Cesanese, che adesso sta avendo un discreto successo. Quello del Piglio va bene alla mescita, mentre Olevano è un po’ più da pasto secondo me. Ciolli, per esempio, lo lavoro molto bene con l’asporto.
Con i vini rosati, invece, come la cavate?
Il Rosato va bene, ma meno bene di bianchi e rossi. Alla mescita di solito ne mettono uno, spaziando da vini un po’ più carichi come il Cerasuolo – il mio preferito – ad altri in stile più provenzale.
Personaggi che ti hanno colpito tra quelli che hanno frequentato questo locale?
Be’ qui vengono gli stessi produttori quando passano per Roma. Ci è capitato in varie occasioni, come ad esempio nella sera della presentazione del Gambero Rosso, che tutto il locale fosse pieno di produttori che poi si muovevano di tavolo in tavolo. Ed è bello vedere un produttore pugliese che discute con uno valdostano: sono situazioni divertenti e molto stimolanti. Tra quelli che sono di casa qui, che sono nostri amici, mi vengono in mente Angela Velenosi, Marco Cirese di Noelia Ricci, i Guerrieri Gonzaga di San Leonardo, la famiglia Calabresi di Tenimenti d’ Alessandro.
Seconda te che ruolo ha Roma nell’attuale geografia del vino italiano? E’ un luogo sicuramente importante, ma negli ultimi anni anche Milano s’è data molto da fare…
Roma è il luogo dove s’impara a conoscere il vino, è un centro importantissimo per l’educazione e la formazione, ma forse a Milano vendono di più. Noi siamo appassionati, ma loro sono forti sul piano commerciale.
Domanda spinosa: cosa ne pensi di questa moda del vino naturale che sta impazzando in città?
E’ un problema molto spinoso. Questi produttori naturali cercano di fare qualcosa di diverso: non toccano nulla nella speranza di fare un vino di territorio. Il risultato, di contro, è che, in certi casi, vengono fuori vini molto simili tra loro, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, che sono marcati dai difetti e mancano di tipicità. Poi ci sono, ovviamente, dei produttori che i vini li fanno così da una vita, come ad esempio Ciolli, di cui parlavamo prima, o i vari produttori di orange friulani. Quel genere di vino naturale lo apprezzo e lo vendo, ma la parola “naturale” in sé per sé non mi fa impazzire.
Se mi dovessi proporre un vino in questo momento, cosa mi consiglieresti?
Per non farti spendere troppo, ti direi Poggio Mandorlo, un Sangiovese 100% da Montecucco, Toscana. E’ un vino interessantissimo che trovi a 15 euro a scaffale ed è sorprendente come regge il tempo. L’azienda mette in commercio anche delle annate vecchie e sono in condizioni perfette. Se, invece, dovessi proporti un bianco, opterei per il Follia di Piana dei Castelli, un Sauvignon Blanc fatto nei Castelli Romani da un produttore che, tornando alla domanda precedente, lavora in maniera naturale, ma fa un prodotto pulitissimo e molto intrigante.
Dicevi prima che il centro si è spopolato e che avete fatto fatica nell’ultimo periodo. Avete mai pensato di aprire un “Goccetto 2” in un’altra zona di Roma?
Ci pensiamo in continuazione. Sarebbe divertente avere una succursale in una zona residenziale per farci conoscere a una certa clientela romana che non frequenta il centro. L’idea sarebbe di agganciarci magari ad un bar o un ristorante per fare enogastronomia a 360 gradi, creando un luogo “all’americana” aperto dalla colazione al dopocena. Vediamo. Mai dire mai.
Qualche auspicio per l’imminente riapertura?
Speriamo semplicemente di servire più clienti possibili. Abbiamo una gran voglia di lavorare bene. Ci manca lo stress dei vecchi tempi. Per fortuna abbiamo già molti tavoli prenotati nel nostro dehors.
Enoteca Il Goccetto Roma
Via del Banchi Vecchia, 14
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