di Bruno Manfellotto
Una notte d’estate ‘o Riccio si lasciò prendere da un’irrefrenabile “appucundrìa”. Montava in lui sorda e incontrollabile. Smaniava. Scoteva la testa. Andava urlando che l’Isola non era più la stessa. Non che fosse cosa del tutto nuova, per lui. Gli succedeva a fine stagione. Era una specie di danza pagana, un rito propiziatorio utile a prenotarsi l’eterno paradiso in terra e a farsi una ragione dell’inferno quotidiano. Era come se il Riccio volesse dimenticare l’assalto famelico e fuggevole del Ferragosto. Malediva questo assedio, ma allo stesso tempo s’augurava che quell’arrembaggio si ripetesse uguale e generoso ogni anno e che gli lasciasse poi lo stesso ambiguo sentimento: rabbia per il faticoso mestiere di vivere; gioia perché la parte più dura dell’anno volgeva al termine: finalmente sarebbe arrivato settembre, e ottobre, e poi la primavera, la stagione più dolce di Capri.
Ma questa volta non era come le altre. ’O Riccio era teso assai. Tremando, guardò giù verso la Grotta e confessò: «Sai quante me n’ha portate oggi Salvatore? ‘A metà c’aieri». La metà. Ma di che? «Di pezzogne…», e la frase gli si spense in gola, come in un rantolo. Oddio, di nuovo. Manìa, sogno e mito della pezzogna. Quotidiana angoscia del vivere. Serena rassicurazione. Grande metafora dell’esistenza dell’Isola…
Nasone, suo amico da sempre, gli disse: “E’ fine agosto, non è il momento giusto, aspetta febbraio, marzo”. Ma non c’era argomento che lo tranquillizzasse. ’O Riccio, per esempio, col passare degli anni, s’era via via abituato all’idea che di fichi d’India all’Isola non ce ne fossero più. O meglio, che non fossero più a portata di mano, lungo la strada, passami il coltello, prendi quello più rosso, no, meglio bianco… E nemmeno in vendita sulle scale della chiesa, in piazzetta, nei cestini di vimini dei contadini. Ma che importa? Basta che ti spinga più in là, che lasci la strada asfaltata, oppure che tu salga in campagna, rischi su quegli aghi di pino, faticalo quel fico, dannazione. Un po’ come i ricci di mare. Ci sono, ci sono, però te li devi conquistare, fiato e pinne. Ma la pezzogna no, diceva, quella deve stare dove sta, guai a perdere quest’ultima certezza.
Buona da mangiare, è buona assai. Ma bella non è, la pezzogna, a dispetto del costrutto napoletano che al mercato o in trattoria impone la domanda: «’A vulìte ’na bella pezzogna?». Quando la tiri su dal mare scuro, prima ancora del suo corpaccio rosa-argento, vedi quegli occhi brutti e grandi, sproporzionati, esagerati, ma indispensabili per vedere qualcosa nelle buie profondità estreme in cui nuota. Ma è viva, si agita, lotta con l’amo, non molla, incute perfino rispetto se pensi che può venire su anche da quattro-cinquecento metri, un qualsiasi altro pesce della stessa famiglia, che so?, il fraulino, arriverebbe gonfio e mezzo morto. Forse per questo, Salvatore il pescatore è uno che le pezzogne quasi le ama, per lui è l’unico pesce che c’è. Quando giura che nuota solo a Capri, ’o Riccio annuisce convinto. Per questo i due finiscono per caricare di significati eccessivi bestia e relativa caccia, e da una buona o una cattiva pesca traggono auspici nefasti o meravigliosi.
Anche lì, oltre i Faraglioni, girata la punta di Massa, i pescatori di Nerano dicono la stessa cosa: è pesce nostro. E non c’è carta nautica sufficiente a dirimere l’antica questione che divide massesi e capresi: di chi sono i Galli? e la Secca delle Vedove? E le Quattro Pezze?
Quando Salvatore va a pezzogne, arma la barca al pomeriggio e non salpa prima del tramonto. Va solo. Con undici lenze di fondo già pronte. Mai dieci o dodici, questione di scaramanzia. Ma senza esca, s’intende. Per tutta notte andrà a totani. Poi, appena l’alba s’avvicinerà, mentre la prora punterà sicura verso le Vedove, Salvatore innescherà i suoi ami con fresche “cianfe” di totano. E lì darà fondo. Fa così da anni e gli va sempre bene. Se uno proprio non si sente nella serata giusta, allora meglio armarsi di coffe, da ancorare giù giù giù o da lasciare a corrente salvate da un galleggiante. L’indomani si torna sulla secca, si tira su e si controlla il bottino. Ma certo non è la stessa battaglia. Salvatore dice che segreti non ce ne sono: il posto è quello, facile da trovare, dieci miglia fuori Capri, chi non lo sa? Oppure si scelgono i Galli, di fronte a Positano, o i quattro scogli sottomarini dell’isoletta di Vetara, sì, le Quattro Pezze, al largo di Nerano, basta andarci. Anche l’esca si sa qual è, niente misteri, magari se qualcuno non trova i totani si arrangi con gamberetti o purpetielli, sardine o alici, tanto è uguale, chi vuole può andare, sfidare la sorte e la pezzogna, assicura Salvatore.
Così sono i capresi. Giurano di vivere sull’Isola più straordinaria del mondo, ma non lo dicono mai con l’aria di stupire, né per provocare invidia, né per sorprendere. Piuttosto si meravigliano che tu non sia lì con loro tutto l’anno. Ti invitano dentro le loro piccole vigne dorate, ti lasciano sfiorare i loro limoni, ti mostrano viottoli segreti, ti indicano privatissimi campi di pesca. Ti illudono che l’Isola sia anche tua. Come la pezzogna. Provate invece a fare qualche domanda a un pescatore di Nerano. Comincerà a rispondere vago, poi concederà che lui di ami di fondo ne carica nove, né uno di più né uno di meno, poi obietterà che a pezzogne si va rigorosamente solo a remi, e alla fine, messo alle strette, scivolerà via con la scusa che ognuno ha i suoi luoghi e i suoi segreti. Amen.
Approcci diversi: il caprese fatica assai pur di tenere in equilibrio la sua isola, che gli piacerebbe eternamente uguale a se stessa, e il mondo che vorrebbe sempre in corsa; il neranino, invece, scettico, lascia che il mondo giri a modo suo, poco importa, tanto è convinto che solo lui conosca e sappia godere il mare di casa e i suoi misteri. E la vera strada della pezzogna. A Nerano, invidiosi, dicono che il caprese fa solo finta di metterti a parte dei suoi segreti, ma che tutta la verità non te la dirà mai. Il caprese, maligno, dice che i veri pescatori non stanno a Nerano… Gli uni e gli altri impreziosiscono di leggende le loro battute di pesca.
Salvatore dice che la pezzogna vive in branchi e solo a grandissime profondità: lui a meno di 150 metri di fondo non ne ha mai presa una. Le secche che frequenta lui, quelle sicure, stanno intorno ai 450 metri. Poiché laggiù nessuno c’è mai andato, ognuno è autorizzato a pensare della vita quotidiana di questa bestia tutto ciò che più gli piace. Salvatore, per esempio, dice che ce ne sono esemplari di 7-8 chili (ma lui non ne ha mai presa una di più di tre), che questi, nella stagione giusta, scortano le femmine che vengono più vicino a costa a deporre le uova. Poiché tutti rispettano la posa e dirigono le loro barche al largo, non c’é nessuno che possa confermare o smentire la leggenda.
A vederla, la pezzogna sembra un denticiotto. Ma le sue carni sono infinitamente più saporite e la loro consistenza più delicata di quelle d’una spigola. ’O Riccio dice che è merito dell’acqua blu e pulita che a Capri è ancora più blu e più pulita. Per questo quando Salvatore torna dalla pesca con un bel cesto di pezzogne, ’o Riccio si tranquillizza; quando invece la sfortuna s’accanisce, ’o Riccio pensa che l’acqua stia cambiando colore e che l’Isola se ne stia andando. Anche quella notte di appucundrìa, Salvatore saltò sulla sua barca e puntò sulla secca delle Vedove. ‘O Riccio passò il resto della serata guardando il mare e aspettando il ritorno dell’amico.
Un signore, andando via, volle rassicurare tutti che lui la pezzogna la mangiava solo all’acqua pazza: cipolla soffritta in padella con poco olio, una macchia di pomodoro (pelati o pomodorini, come si preferisce), un bicchiere d’acqua e mezzo di vino, sale, pepe, e poi il pesce, 10-15 minuti con il coperchio poi qualche minuto ancora però senza il coperchio e con la fiamma più vivace per tirare un po’ la salsa. Alla fine una bella spruzzata di prezzemolo. Tutti annuirono. Quel signore stava per raccontare di aver visto la pezzogna anche sui banchi del pesce di Messina, dove però la chiamano Scazzùpulu, di Cagliari (Bubbureddu) e perfino di Genova (Besùgo), dove però la maltrattano cucinandola solo alla brace. Ma aveva taciuto la sua verità. Tanto sapeva che ’o Riccio non gli avrebbe creduto mai.
La pezzogna di Lello Tornatore
La Pezzogna di Raffaele Bracale