di Stefano Tesi
Lo ha battezzato “Elisir di limone” e si arrabbia parecchio se lo si chiama limoncello, perchè in effetti con il limoncello non condivide praticamente nulla. Se non il fatto che si presta assai al consumo di fine pasto e, ovviamente, l’ingrediente principale: il limone. O meglio, la scorza del medesimo.
Lui si chiama Daniele Magrini, è uno chef maremmano, di Castiglione della Pescaia per la precisione (ottimo il suo “La Baia dei Butteri”) e di limoni, nel senso di piante, ne ha appena una ventina in giardino, anche se della varietà quattro stagioni, che fruttificano tutto l’anno, ammette.
Da quelle ricava il necessario per questa bevanda-bomba finita di mettere a punto due mesi fa dopo anni di esperimenti e che, in anteprima, mi ha fatto assaggiare.
Lo riconosco: ne sono stato folgorato.
Per ora ne produce solo cinquecento bottiglie, che vende nel suo ristorante a 18 euro l’una. Ma dice che quando sarà “a regime” e quindi pronto, nel 2017, a lanciarlo su scala commerciale, arriverà all’astronomica tiratura di mille pezzi l’anno.
Di che si tratta?
Di un liquore secco, asciutto, di tenore alcoolico relativamente modesto (28°), che conquista per franchezza, equilibrio e lunghezza. Per il magnifico, perfino suadente profumo di agrume fresco, poi per la sua pulizia in bocca, per il suo gusto netto e deciso ma scorrevole, per l’assoluta mancanza di note stucchevoli o appiccicose e per un fragrante retrogusto amarognolo di buccia di limone che dura a lungo senza produrre tuttavia effetti amari sgradevoli, ripulendo anzi alla perfezione il palato e – sì – inducendo più volte al rabbocco del bicchiere.
Un qualcosa che mi ha ricordato, per utilizzo e anche per caratteristiche esteriori (limpidissimo, dal bel tono ambrato chiaro, senza nulla di “limonemente” giallo), certi antichi vinsanti mai troppo lodati e ormai quasi introvabili, con una variegabilità di funzioni che andava dal vino da dessert a quello da meditazione, dal cordiale per i viandanti al medicamento per gli infermi.
La preparazione, mi spiegava Magrini, è estremamente lunga e complessa.
I frutti vengono sbucciati con una sorta di pelapatate che ha inventato lui, le bucce vengono quindi lasciate a riposare per 24 ore in un contenitore forato per far evaporare le sostanze più acute. Dopo di che si prepara uno sciroppo di acqua e zucchero usato per diluire fino a 28° un alcool a 95° ricavato dal frumento.
La miscela viene messa in grandi buste sotto vuoto riempite ognuna con 2 kg di bucce e lasciata a cuocere in forno, nonchè a raffreddare, diverse volte.
Dopo una settimana di riposo, cominciano i filtraggi: prima con una rete a sacco, poi a 20 micron, quindi a 10 micron e infine con una cartuccia sterile a 0,2 micron che, oltre alle ultime particole in sospensione, trattiene anche i batteri.
Ultima tappa, la bottiglia con tappo in sughero (“Sardo”, puntualizza Daniele).
Ma l’impresa non finisce del tutto qui.
Forte del motto “il limone è come il maiale, di esso non si butta via nulla”, il nostro si è inventato la sua personale filiera domestica del limone: “Con le scorze ci faccio il liquore. Con quello che ne resta, essiccato, una polvere aromatizzata da pasticceria. Con la polpa una speciale marmellata e con i semi un’essenza per candele”.
L’essenza, l’ho sperimentato in diretta, funziona alla grande. Dell’elisir ho già detto. Del resto dirò la prossima volta.
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