Rilanciamo, d’intesa con l’autrice che le ha scritte su, alcune considerazioni sull’ultima edizione di 50 Best Restaurant.
Lasciarle sui social vuol dire “Ho scritto t’amo sulla sabbia”, almeno qui le consegniamo alla memoria collettiva diGoogle.
di Giulia Gavagnin
Quest’anno più o meno tutti avevamo indovinato chi avrebbe vinto la 50 best, quest’anno più o meno tutti avevamo scommesso sul secondo posto ancora nella terra dei vichinghi, quest’anno io personalmente sapevo che più green, orto, meno sprechi, più opere di bene, più sostenibilità, più bla bla bla per salvare il pianeta, più alto posto in classifica fifty best. Hanno anche lanciato un bel filmato-documentario sul punto a sostegno.
Dei ristoranti presenti in classifica ne ho visitati parecchi in Europa, quasi nessuno Oltreoceano, quindi non esprimo giudizi da esperta o da giurata, solo una sensazione.
Ho l’impressione che a guidare la classifica sia un sottile algoritmo che determina dove sia più “hype” sedersi a tavola, che le agenzie di comunicazione nella determinazione dei complessi fattori che determinano quanto un luogo sia più o meno “hype “abbiano un ruolo determinante, che la classifica finale sia determinata dalla combinazione tra il lavoro dei comunicatori e gli algoritmi.
La 50 best è intende essere la vera guida contemporeanea, la Michelin si fonda su presupposti vetusti.
Credo che la 50 best essenzialmente premi i seguenti fattori.
1. Tematiche e ideologia portante
Da qualche anno è “hype” non solo chi è sostenibile, ma anche chi della sostenibilità fa un credo quasi politico, adeguatamente reclamizzato, meglio se sotto forma di credo quasi religioso. Petranto, è “hype” il cuoco alfiere della sostenibilità, possibilmente giovane e in ottima forma fisica grazie all’alimentazione naturale e alla pratica sportiva quotidiana, è anche ammesso al club chi alla sostenibilità spinta si è avvicinato in età più matura perchè quando ne aveva venti di anni la tematica era sentita solo a livello di ONU e di cattedre universitarie, non nelle cucine. E’ stato significativo in questo senso il balzo di Niederkofler nella classifica tra il 100′ e il 50′ posto.
2. Attitudine cosmopolita, presenzialismo internazionale.
Quale interprete del “contemporaneo” il cuoco deve saper veicolare le tematiche di cui sopra con comunicati convincenti, slogan efficaci e lectio magistralis alla bisogna. Il cuoco deve essere rock, giacca elegante, jeans di marca e sneakers ultragriffate, possibilmente di sponsor affermati. Tatuaggi decorativi come accessorio non indispensabile ma utile. Per veicolare detta immagine a livello mondiale ci sono dietro sempre le stesse agenzie di comunicazione o pierraggio, sempre le stesse persone. Non è una critica, è una constatazione. E’ il capitalismo, baby. Non esiste più alcuna attività lucrativa che non sia fondata sulle relazioni. E nemmeno su una parola che fa paura a tanti. Le lobby. C’è una lobby di comunicatori dietro a tutto ciò. Un manipolo di persone con la capacità di comprendere in anticipo cosa “piace alla gente che piace”. Che veicola l’immagine di uno chef e dei suoi addentellati nella direzione indicata dal pubblico internazionale. Il caso Extebarri potrebbe apparire eccentrico rispetto a quanto affermato. Invece è l’eccezione che conferma la regola. Alla gente che piace, piace anche l’oggettivamente buono, l’ancestrale puro è percepito come creativo, quindi “hype”. Arguinzoniz ha un’immagine definita -peraltro autentica, non costruita- di uomo “vero”. La verità piace al pubblico e i comunicatori che svolazzano intorno alla 50 best lo sanno. Non dimentico, inoltre, che nel 2019 Niko Romito scese parecchio nella classifica dichiarando che l’essere stato solo in cucina senza partecipare a kermesse internazionali probabilmente lo avesse penalizzato.
3. Internazionalismo per un pubblico internazionale
La Michelin nacque come guida per i viaggiatori su ruota, l’epoca della 50 best è l’aria. Ai tempi della Michelin in 12 ore un viaggiatore da Milano arrivava a Napoli, oggi arriva a Hong Kong. Un italiano nella memoria gustativa ha il pomodoro, non i dim sum. La 50 best può premiare il miglior ristorante di Hong Kong più adatto al gusto internazionale, per l’italiano che nella memoria gustativa ha il pomodoro e per l’americano che ha il pollo fritto. Può non avere interesse a premiare il più autentico. Non voglio dire che sia sempre così, a volte le due cose possono coincidere, il bello e il buono sono anche oggettivi, ma .. non è detto che sia sempre così.
4. Gli sponsor
Nessuno mette in dubbio che tutti i prescelti siano eccellenti, ma quando si tratta di sfumature, lo sponsor potrebbe avere l’ultima parola. Anche qui, è il capitalismo, baby.
Ps: alle considerazioni di Giulia aggiungiamo un pezzo di due anni fa in cui si riportano le dichiarazioni rilasciate da Niko Romito ad Alessandra Del Monte del Corrriere dellaSera.
Coltivo il vizio della memoria e dopo due anni fa veramente rileggere questa analisi alla luce del risultato della nuova edizione.
La cosa è talmente clamorosa che non merita alcun commento se non fare propria una esternazione del grande Marino Niola: “Non sempre un bravo cuoco è un grande pensatore”
l.pigna
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