di Giulia Gavagnin
E’ iniziata la Mostra del Cinema di Venezia e con questa la stagione –climatica e mondana- più interessante dell’anno in città. Si va al Palazzo del Cinema compilando la scheda sulla “neutralità carbonica” (sic), la promessa è di fare meno coda e offrire sempre maggiore qualità.
Invero, da quando il direttore della Mostra è Alberto Barbera, la qualità s’è impennata, a dispetto dell’infausto decennio che aveva preceduto la sua gestione. Basti dire che si sono viste da queste parti pellicole sensazionali come “Gravity” di Alfonso Cuaròn, vincitore di Oscar, “Joker” con Joaquin Phoenix, nonché lo stralunato “Povere Creature!” di Yorgos Lantimos. Tutte regie visionarie, tutti film oltre l’interessante.
Poiché anche quest’anno si preannuncia carico di contenuti, e probabilmente Venezia ha superato Cannes, chi scrive non può astenersi dall’affermare che la città lagunare sotto il profilo enogastronomico non ha più nulla a che vedere con quel che era fino a una quindicina d’anni fa.
Un luogo dove prima di mettere piede in un ristorante o in un’osteria bisognava farsi il segno della croce.
E’ accaduto che negli ultimi tre lustri, un manipolo di giovani e meno giovani, perlopiù veneziani e veneti, si sia sonoramente stancato di sentirsi dire che Venezia era “la città dove si mangiava peggio in Italia” (parole testuali di Benedetta Fullin, patronne di Local, stellato nel sestiere di Castello).
Così, a vari livelli, grazie a chi ha aperto un’osteria (o “bacaro”), chi un ristorantino, chi un ristorante di varia contaminazione, Venezia ha cambiato volto diventando –in questo momento- una delle città gastronomicamente più interessanti d’Italia. Proprio nel medesimo senso visionario dei registi di cui sopra.
Del resto, per raggiungere la cima bisogna prima toccare il fondo.
In un mio recente articolo ho parlato dell’autenticità che manca nei ristoranti di fine dining. Nella città lagunare, questi giovani stanno cercando di fare ciò che tutti auspicano: essere autentici.
Così, questa non vuole essere la solita guida ai locali e ai bacari di Venezia (quella l’avevo già pubblicata qualche anno fa), magari scritta dal giornalista in trasferta che si imbuca negli anfratti più strani della città (la “Venezia nascosta” ha stufato da mò), bensì un percorso in luoghi di vario livello e posizionamento che cercano di trasmettere a vari livelli il valore della venezianità, questa sconosciuta.
E chi meglio di un’autoctona cosmopolita come la sottoscritta può descriverlo?
La base di partenza sarà proprio il Lido di Venezia.
Se lo chef ufficiale della Biennale Cinema è Tino Vettorello, con ristoranti a Jesolo e a Soligo sui colli di Conegliano, grande maestro di ricette ittiche che ha dedicato negli anni piatti ad attori illustri come il “Rombo alla Clooney”, chi non partecipa agli eventi ufficiali può esplorare la ristorazione lidense.
Dove non troverà nulla di sensazionale, se non un manipolo di buoni ristoranti tradizionali di pesce, con tutto il campionario lagunare di prelibatezze: grancevola, schie, sarde in saor, folpetti, spaghetti alle vongole o al nero, pesci cucinati in vari modi. A Lido Centro, da Valentino e da Andri la tradizione è di casa e non si sbaglia, così come per un aperitivo con “cicchetti” Al Mercà. Il Lido è lungo e anche piuttosto popolato, circa 25.000 abitanti. A momenti, più di Venezia che è scesa sotto i cinquantamila. I veri lidensi si spostano in zona est: ai Murazzi, che non c’entrano col vivace quartiere torinese, dove giace l’omonima trattoria. E a Malamocco, dove il mare è più blu, o almeno così dicono, dove si trova Scarso, nota per essere una delle più antiche trattorie veneziane. Solo per questo, vale il viaggio.
Dall’imbarcadero del Lido S.M. Elisabetta giungere a San Marco è un attimo: quindici minuti. Ancora meno ai Giardini, in zona Biennale, che nella sezione “arte” è tuttora operativa: motivo in più per andare a Venezia in questi giorni. Questa parte della città – sestiere di “Castello”- è considerata la “vera Venezia”, perché storicamente era abitata dal popolo. Non è un caso che molti tra i locali più interessanti siano allocati proprio qui.
Dalle parti dell’Arsenale c’è Al Covo (campiello de la Pescaria 3968), che rappresenta l’essenza del “ristorante borghese” lagunare. Attivo dal 1987 e dunque precursore di uno stile, valorizza gli ingredienti di laguna ben prima che le biodiversità divenissero una moda. I patron sono Cesare Benelli e la moglie Diane che si occupa dei dolci. Sono una specie di coniugi Bottura lagunari perché Diane è americana, come molta clientela del locale.
Ovviamente, americani well-educated. Benelli è stato presidente degli Osti in Orto, un’associazione di ristoratori “autentici” che valorizza i prodotti ortofrutticoli delle isole veneziane . Un esempio su tutti? Le famose castraure di S. Erasmo. Al Covo troverete le prelibate moeche, una grancevola favolosa, la ceviche di Lotregano (pesce del Doge), i calamari “caciaroli”, il brodetto di pesce, selvaggina da piuma in stagione, ma anche i salumi di Spigaroli e la carne di Simone Fracassi. Non solo km.0, dunque, ma anche “Km. Eccellente”. In sala, il grande servizio di Lorenzo “Lollo”, fine conoscitore di vini, soprattutto naturali. Uno che farebbe capire ai più giovani cosa significa saper gestire una sala.
All’infuori della grande ristorazione di hotel e dell’impero di Cipriani che giocano un altro campionato, i Benelli rappresentano gli iniziatori della rinascita della ristorazione veneziana, e ancora oggi hanno molto da dire.
Qualche campo più indietro c’è un indirizzo che ormai ha preso il volo. Local (Salizzada dei Greci 3303), detiene una stella da tre anni, lo chef attuale è campano, ma la proprietà autenticamente veneziana. Benedetta Fullin e il marito Manuel ormai da anni gestiscono questo boutique-restaurant di alta cucina e grandi risultati.
Murrine veneziane sul pavimento, vocazione internazionale, ma capacità di leggere il territorio. Salvatore Sodano ci ha messo un po’ per adeguarsi al mood veneziano ma nell’ultima visita si è mostrato in gran forma. Cicchetti rivisti in modo intelligente, qualche fermentazione ed erba alloctona, ma ben dosati. Baccalà, la sua lingua e pil pil; pasta mista con limone e limone di mare; fungo cardoncello; anatra porro e polline, sono dei bei viaggi nella città di Marco Polo. Carta dei vini e cocktail di alto livello a cura di Manuel.
Il fratello di Benedetta, Luca, da poco è tornato nel locale di famiglia, Pensione Wildner . La cucina è più tradizionale e volutamente meno moderna, ma vale la pena anche solo per sedersi in un ambiente familiare e amichevole proprio in Riva degli Schiavoni, al n. 4161. Cozze Mitilla di Pellestrina, risotto di gò (ghiozzo, pesce grasso di laguna), coda di rospo e scampi “alla carlina”, omaggio all’Harry’s Bar, possono costituire un menu veneziano da gustare in una delle zone più turistiche della città ma in un ambiente autentico. Bisogna approfittarne. Anche qui, la carta vini toglie più di qualche soddisfazione.
A pochi passi da Local ha aperto da nemmeno un anno Pietrarossa (Castello 2877), in omaggio al monumento votivo ricordo dell’unica calle veneziana rimasta immune dalla grande epidemia di peste.
Verità o leggenda, siamo ben distanti dai flussi turistici e qui il carismatico Andrea Lorenzon, dopo l’esperienza del Covino, ha istituito la sua nuova casa. Ampia carta di vini naturali, cucina perlopiù eseguita sul Kamado, non necessariamente tradizionale. Anche qui siamo in orbita “orti di Venezia” con le verdure delle isole, paccheri all’amatriciana di mare con le seppie, carne di Fracassi abbellita dal tartufo uncinato. Andrea ha incedere indie-rock e appeal da oste consumato ed è figlio d’arte. Il padre Mauro è stato il fondatore delle “Enoiteche” e da poco è tornato in pista con un suo bacaro chiamato come il locale che lo rese famoso a Jesolo: La Caneva, in Calle dei Forni 2282. Se posso permettermi, andare a trovare in sequenza padre e figlio è un bel flash. Chi li conosce, capisce.
A tal proposito, un piccolo inciso: La Caneva è omonima di una distribuzione di vini naturali che si trova in terraferma, a Mogliano Veneto. Un’istituzione pioneristica che serve molti dei locali qui menzionati: anche in questo caso, chi li conosce, non se li perde.
Camminando verso San Marco, al n. 355, vale un pit stop ai Do Leoni, per uno spriz e un cicchetto, ma ancora meglio, per un “egiziano” versione riveduta e corretta dell’americano. I ragazzi, infatti, provengono da famiglia egiziano-copta, ma parlano venezianissimo. Il locale è minuscolo, proprio sulla sinistra della basilica. La mixology è di alto livello ed è impossibile spendere così poco in piazza San Marco. Qui si può.
Certo, da queste parti ci sono i ristoranti di lusso, il Quadri degli Alajmo, l’Harry’s Bar, un po’ più indietro i Do Forni della famiglia Paties, che comunque rimane un avamposto della cucina veneziana, del bel vivere, della belle epoque e anche qui, di un servizio di sala notevole. Vale più per l’ambiente che per il cibo, ma chi siamo noi per non godere di una grande atmosfera?
Tuttavia, a pochi passi dai Do Forni, giacciono i miei locali preferiti.
Il primo è Ai Mercanti (Corte Coppo 4346/a) nei pressi della suggestiva Scala Contarini del Bovolo. E’ un localino nascosto, non facile da trovare, con specchi alle pareti e una cantina eccellente. Simone Poli è un simpatico mattacchione che non contento di ricercare vini della più svariata provenienza, ora si è anche appassionato agli specialty coffee.
Ora qui si beve il miglior caffè di Venezia, ma si viene soprattutto per la cucina di mamma Nadia, a cavallo tra laguna e oriente. Un locale che vibra, un po’ come il vicino Ai Assassini (San Marco 3695), storica insegna veneziana rinata grazie alla nuova gestione di Carlo Rebuli, da un anno al timone del locale.
In questo momento storico forse l’indirizzo più affidabile e frizzante per la cucina veneziana e qualche incursione esterna. “Sfogetti” (baby sogliole) in saor o fritti, un baccalà strepitoso, gnocchi al nero di seppia con calamari e broccoli, fritto nostrano, e un fegato alla veneziana come Dio comanda. Anche qui, si beve bene, con tanta attenzione a tutte le regioni italiane. Uno dei miei locali prediletti.
Alle Testiere (Calle del Mondo Novo, 5801) di Luca di Vita e Bruno Gavagnin, è forse l’indirizzo più rappresentativo di come Venezia è cambiata già da qualche anno. E’ un locale microscopico poco distante da Rialto, con quattro tavolini e cucina rigorosamente di mercato con menu che può cambiare anche giornalmente. Prenotare è difficilissimo perché i coperti sono venti e sono presi d’assalto da una clientela internazionale alto-spendente e, soprattutto, affezionata.
La cucina è gaudente e snella, lo chef è un antesignano della bistronomie, declinata totalmente alla veneziana, con pesce del mercato di Rialto e tante verdure fresche. Non a caso, da pochi mesi il testimone della presidenza degli Osti in Orto è passato proprio a Luca di Vita, grandissimo maitre di sala e detentore di un’ottima cantina. Una curiosità. Alle Testiere entrò a far parte della prima edizione della 50 Best, quando le cucine degli orti amazzonici erano ben là da venire. A riprova, comunque, della vocazione internazionale del patron, che può ben fregiarsi del titolo di ambasciatore della cultura gastronomica veneziana nel mondo.
Siamo ormai giunti a Rialto. Conviene fare il ponte e trovarsi dalla parte del mercato. Qui vi è il tripudio dei bacari, più o meno buoni. Meritano una sosta Al Marcà, in campo della Bella Vienna, per i paninetti e qualche buona bottiglia; All’Arco, per i migliori cicchetti con pesce crudo della città (vini da migliorare) e Al Sacro e Profano, gestito dai fratelli Sara e Valerio Silvestri, artisti di vocazione e osti per passione. Altra curiosità: Valerio è stato il trombettista dei Pitura Freska, il gruppo reggae che cantava in veneziano (parteciparono anche a Sanremo con “Papa nero”) più famoso di sempre.
Sempre su questa sponda, un nuovo locale che mostra l’attitudine neo-cosmopolita di Venezia è Bacan (Calle del Tentor 1834) di Marco Zambon e Silvia Rozas, che hanno saputo trasformare la Birraria La Corte nell’unico luogo di pizza contemporanea a Venezia. La nuova insegna è mezcaleria e cucina sudamericana con tacos, tortillas, ceviche e ingredienti (anche qui) del mercato di Rialto e abbinamento con i cocktail. Una bella sfida che sembra essere già stata vinta.
Se invece vogliamo restare dalla parte opposta del ponte, vale la pena incamminarsi e andare da Masahiro Homma, il samurai giapponese che ha sposato lo stile di vita veneziano e i suoi costumi, soprattutto enologici. La sua Osteria Giorgione da Masa (Calle larga dei proverbi, 4582/a) è un posto fichissimo, come si conviene a un orientale che ha fatto una scelta di vita così radicale. Qui non si mangia sushi, ma cucina giapponese casalinga con ingredienti del mercato di Rialto. Così, se l’anguilla unagi con riso la si trova quasi sempre, gli scampi alla fiamma solo quando ci sono.
Masa sa preparare brodi deliziosi: i suoi ramen con cozze di Pellestrina possono valere il viaggio e i gyoza ancora di più. L’atmosfera non ha nulla del compassato stile nipponico. Si chiama osteria, stavolta per davvero. E ha ottimi vini, perlopiù naturali.
Alle spalle di Masa giungere nell’area della “movida veneziana” è un attimo. Nella Fondamenta della Misercordia e degli Ormesini , nel quartiere di Cannaregio ci sono locali da spriz, ma anche da vini naturali e ottime birre artigianali, sempre presi d’assalto da una clientela giovane e alternativa.
Prima, però, sarebbe d’obbligo una sosta da Vini da Gigio (Cannaregio 3628) di Paolo Lazzari.
A parte la selezione di vini epocale, anche sul versante transalpino, l’atmosfera familiare da vera trattoria veneziana e il pescato sempre freschissimo. Qui, udite udite, i prezzi sono assolutamente accessibili. Poi, ovviamente, se uno vuole bere la Tache sono affari suoi!
Sulla fondamenta c’è un affastellarsi di locali, alcuni molto validi. Il famoso Vino Vero (solo vini naturali), La Sete e Rioba (medesima proprietà e medesimo orientamento enologico), il pub Marciano con una terrazza meravigliosa sul canale. Alle loro spalle, al n. 5039 delle Fondamente Nove, c’è Algiubagiò, che vanta una delle più belle terrazze della Laguna. La zona è meno frequentata, d’inverno tira il vento, ma l’indirizzo è di quelli sicuri. Chef Francesco Zennaro proviene dal Vecio Fritoin e ha pedigree veneziano al 100%. In questo storico indirizzo per il vero tramezzino la cucina si è evoluta con qualche reminescenza di paesi lontani. Wafer di baccalà mantecato, tayaki di granchio blu, linguine verdi con brodetto di laguna, bigoli in brodo affumicato e caviale di aringa, un coreografico dessert dedicato a Bansky. Lampadari barocchi alle pareti e servizio premuroso. Che non si dica che a Venezia sono maleducati.
La passeggiata è terminata, la guida non è volutamente esaustiva ed è (sempre) perfettibile. Tuttavia, spero di essere stata d’aiuto a chi vuole capire la venezianità attraverso i suoi locali più autentici, nuovi e meno nuovi. Molti locali stanno aprendo, soprattutto nel settore fine dining. Ho trovato ben instradata Vania Ghedini dell’Oro Cipriani, sotto la direzione artistica di Massimo Bottura, ma è ancora troppo presto per trarre le somme. A Palazzo Franchetti, nel nuovissimo Moro Venice sta per insediarsi Davide Bisetto, ex chef trevigiano proprio di Oro che tanto ha fatto bene in passato. Lo seguiremo con attenzione e non mancheremo di farvi sapere.
Intanto, buon divertimento!
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