Dopo una lunga serie sulle critiche di vino, il focus si sposta sulla produzione al femminile. Zone di ispirazione, stili produttivi e prospettive: ecco qual è l’approccio delle produttrici italiane.
Come membro dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino mi rivolgo alle produttrici di diverse regioni d’Italia per saperne di più.
Oggi lo chiediamo a Manuela Piancastelli
Napoletana, laureata in Lettere e Filosofia, per vent’anni giornalista professionista del quotidiano “Il Mattino”, collabora attualmente con Bell’Italia. Nel 2003 con il marito Peppe Mancini ha fondato l’azienda Terre del Principe (Terre del Principe – Azienda Vinicola), puntando sulla valorizzazione di tre antichi vitigni autoctoni casertani: Pallagrello bianco, Pallagrello nero e Casavecchia. È stata collaboratrice di Luigi Veronelli, con la cui casa editrice ha pubblicato le biografie di Mario d’Ambra e Pina Amarelli. Ha anche scritto alcuni volumi sui grandi vini d’Italia per la Hobby&Work su Campania, Puglia, Basilicata e Calabria e una storia sui vini del Sannio (Kat editore). È stata presidente del Movimento Turismo del Vino della Campania nonché tra le prime a far parte delle Donne del Vino e della FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti). Tra i numerosi riconoscimenti, è stata insignita dal Ministero dell’Agricoltura del premio Cangrande della Scala come Benemerita della viticoltura e ha vinto il Premio Luigi Veronelli.
Quando e come hai iniziato a fare vino?
Tutto è cominciato nel 1999, quando ho conosciuto per un’intervista (io ero giornalista de Il Mattino) il mio futuro marito Peppe Mancini. Lui, dieci anni prima, aveva riscoperto in una vigna della zia, a Castel di Sasso, alcune piante centenarie di Pallagrello bianco, Pallagrello nero e Casavecchia, aveva fatto delle marze e le aveva ripiantate in una vignarella intorno alla casa di campagna, a Caiazzo. Aveva iniziato a fare vino per gioco, e per passione, non immaginando di creare un’azienda né di fare vino al di fuori della famiglia. Io ero già appassionata di enogastronomia e quell’incontro fu doppiamente importante: dette una svolta alla mia vita sentimentale, dopo pochi mesi vivevamo già insieme, innamorati persi, e avviò quel progetto che nel 2003 sarebbe diventato Terre del Principe. Una piccola azienda di alta qualità dedicata, nel nome, al mio Principe. Da quel ’99 a oggi non c’è stato un giorno in cui il vino non abbia riempito le nostre giornate, i nostri pensieri, il nostro cuore, le nostre mani.
Quali sono i tuoi riferimenti o le tue zone di ispirazione in Italia e all’estero?
Io credo che per qualunque vignaiolo il riferimento non possa che essere la Francia. Non tanto per la qualità dei vini, nella quale noi italiani non siamo per nulla inferiori, anzi, ma per la grande capacità dei francesi di interpretare e raccontare i territori, dalla quale abbiamo tutti necessità di imparare. Anche perché loro, facendo da secoli uno storytelling intelligente, hanno avuto veramente modo e tempo di conoscere il loro ambiente, le loro vigne, i suoli e il loro terroir in maniera profonda e accurata. Di comprendere le differenze fra le uve della parte alta e quella bassa di una vigna e di avere il coraggio di imbottigliarle separatamente, magari in poche centinaia di esemplari che sanno vendere a prezzi molto più remunerativi di noi. Ciò detto, voglio ricordare che il fenomeno francese si basa su una piattaforma ampelografica molto ristretta mentre quella italiana è immensa, senza contare che noi abbiamo differenze enormi fra una zona e l’altra perché abbiamo una ricchezza geomorfologica e quindi microclimatica che ci rende unici in Europa. Quindi, almeno teoricamente, noi potremmo fare di più e meglio.
Credi che lo stile produttivo possa cambiare tra uomo e donna?
Non sono un’appassionata del dibattito sui generi. Credo che intelligenza, competenza, preparazione, capacità di sacrificio non abbiano sesso. Trovo che sia sempre intellettualmente molto rischioso fare queste distinzioni, perché i pregiudizi (positivi o negativi che siano poco importa) si annidano sempre in qualche zona oscura del nostro inconscio. Tuttavia, poiché le influenze culturali, ambientali e sociali esistono, devo dire che la donna, in genere, cerca nelle cose che fa un maggiore equilibrio. Per esempio, i vini estremi sono fatti più spesso da uomini che da donne, noi in genere puntiamo più sulla purezza dei vitigni, sull’eleganza, sull’equilibrio. È però veramente fondamentale il ruolo delle donne nelle aziende: l’empatia con i dipendenti, la condivisione della loro vita privata, il tenerne conto nell’organizzazione aziendale, crea un clima più disteso, meno competitivo, che porta tutti al dare il meglio perché c’è maggiore identificazione col progetto comune.
Qual è la tua firma stilistica?
Non so se ci sono riuscita, ma almeno in questa fase della vita la mia firma stilistica vorrebbe essere l’eleganza, la sottrazione, la sobrietà. Ti faccio un esempio che non c’entra col vino: io adoro le pietre preziose, sono una passione immensa che ho ereditato da mia madre, eppure non indosserei mai più di un gioiello importante per volta perché la bellezza sta nell’unicità, nella capacità di attrarre luce su un unico punto del tuo corpo. Lo stesso vale per il vino: anche un vino sontuoso, come può essere ad esempio il Piancastelli, deve essere essenziale, un fascio di luce forte puntato al cuore di chi lo beve e lo illumina in maniera intelligente, assoluta, elegante. Perché anche una luce unica, se si rifrange in modo giusto, può, anzi deve, avere mille sfaccettature.
Quali sono le maggiori difficoltà nel fare vino in Italia oggi? E quali i vantaggi?
Credo che solo le piccole aziende vitivinicole italiane abbiano difficoltà, le grandi molto meno. Si fa presto a riempirsi la bocca di micro-imprese, aziende familiari, ma la verità è che – aldilà del successo mediatico, che puoi raggiungere anche con cento bottiglie – le imprese si reggono su fatturati, su spese fisse, su investimenti che fai oggi per averne i risultati fra cinque anni, fare il vino è un’impresa rivolta al futuro e a volte il futuro può riservarti delle sorprese sgradite, vedi la pandemia. Eventi come questo per le piccole aziende di alta qualità, che hanno scelto il settore Ho.Re.Ca, sono una calamità come le cavallette bibliche. Ma aldilà di eventi particolari, le grandi imprese possono contare su capitali e risorse professionali che le piccole non hanno, in aziende come Terre del Principe noi ci occupiamo di tutto: dalla produzione alle vendite, dall’agricoltura al marketing, dai tappi alle etichette, dalla gestione del personale alle brochure e questo non solo è molto stancante ma spesso si commettono errori perché non abbiamo competenze per tutto. Sbagliamo più facilmente e paghiamo subito i nostri errori. Il grande vantaggio che hanno le piccole aziende è che spesso raccontano, più delle grandi, i territori. E questa è una cosa bellissima, un valore immenso che rende grande il nostro Paese.
In che direzione sta andando il vino italiano secondo te?
Mi aggancio alla risposta di prima: la direzione è nel racconto dei microterritori. In questo il vino italiano, nel suo complesso, sta andando nella direzione giusta. Dobbiamo tenere conto che oggi si fanno grandi vini in tutto il mondo, anche in zone che abbiamo sempre considerato marginali o improponibili, grazie anche alle mutazioni climatiche. I nostri competitor sono sparsi sul pianeta e questo è un fenomeno relativamente nuovo. Anche loro raccontano le loro differenze, i loro territori, e spesso lo fanno molto bene. Ma il mito italiano è ancora fortissimo, nonostante tutto esercitiamo un incredibile fascino sull’umanità, le nostre località turistiche echeggiano nell’immaginario collettivo come miti inarrivabili e lo sono. I nostri territori, dalle Alpi all’Etna, sono un mix di natura, cultura, architettura, arte, sapori, profumi e il vino è una parte integrante di tutto ciò, anzi è un territorio in una bottiglia. Se ogni vignaiolo italiano lanciasse in mare una bottiglia di vino, dall’altra parte del mondo arriverebbero migliaia di bottiglie differenti, ognuna con un vino unico, irripetibile, con una diversa luce, un differente calore, un sapore introvabile altrove, un francobollo di un paesino, di una vignarella, di un’uva che esiste solo in quel francobollo. È questa la nostra unicità e la nostra forza. Il vino italiano continuerà a esistere nel mondo, nonostante i nuovi orizzonti enoici, per tutti quei francobolli che salvano la nostra storia.
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