Dolci napoletani di Natale
di Alfonso Sarno
“Dove sono finiti i dolci di Natale? Rococò, susamielli, struffoli, mostaccioli…?” si chiedeva qualche giorno fa Enzo Crivella, gelatologo di Sapri recentemente nominato Nuovo ambasciatore del Cilento nel Mondo. Travolti – forse – dalla tumultuosa ondata del panettone rivisitato dai più famosi pastichef e declinato in versione dolce o salata? Estraneo alla nostra tradizione tanto da essere completamente ignorato da Mario Stefanile che nel suo “Breviario della cucina napoletana” scrive: “Con la pasta reale i pasticcieri napoletani a gara con quelli siciliani sono capaci d’imitare alla perfezione quanti mai frutti di terra e di mare esistono; e compongono degli straordinari “trionfi” di questa variopinta perfetta frutta fatta di mandorle e zucchero. A Natale ne traboccano le vetrine e gareggiano con i “mostaccioli” (farina, zucchero, mandorle e cioccolata), con i “raffioli” semplici o a cassata, con i “rococò” dall’odore di cannella, con i “sosamielli” anch’essi di farina e mandorle ma speziati un po’ di più, con gli “struffoli” e via via: tutti dolci tradizionali che stanno bene con la frutta secca proprio d’uso nelle feste di Natale e Capodanno”. Democraticamente presenti su ogni tavola ad accompagnare abbuffate, tombole e subitanei momenti di golosità; retaggio dell’arte delle monache dolciere le quali – come racconta Enrichetta Caracciolo dei principi di Forino in “Misteri del Chiostro napoletano” – nel chiuso delle claustrali cucine inventavano, sperimentavano dolci belli da vedere e buoni da mangiare che in occasione di feste e ricorrenze venivano anche venduti ma, soprattutto, destinati ad abbellire le tavole degli aristocratici parenti, confessori e benefattori.
Struffoli, susamielli, croccanti e torrone
Invece resistono, eccome resistono: in testa gli struffoli, pallottoline di farina di non più 5-10 millimetri di diametro, burro, zucchero ed uova fritte in olio ben caldo a 180°, insaporite nel miele, cosparse di confettini sia argentati che variopinti chiamati, quest’ultimi, “diavulilli” e pezzetti di arancia o cedro canditi. Semplici, antichi e scenografici per le varie forme con cui venivano composti – ricordate la barocca cornucopia? – prendono nome ed aspetto dagli stroggùlos che significa, in greco, di “forma rotonda”. La tradizione impone che vengano fritti ma chi li preferisce più leggeri può prepararli al forno; in entrambi i casi se si desidera avere struffoli dal sapore aromatico aggiungere nell’impasto o nel miele qualche cucchiaio di liquore come Strega, Cointreau, Limoncello o Anice.
Nessuna possibilità di essere protagonisti delle raffinate composizione che monache e monsù ideavano per il dessert natalizio per i susamielli, così chiamati per essere a forma di esse: farina, mandorle, miele, zucchero, un pizzico di “pisto” ovvero un trito di cannella, noce moscata e chiodi di garofano; frutto della creatività delle Recluse di Santa Maria Donnaregina, antichissimo cenobio abitato prima dalle Basiliane, poi dalle Benedettine ed, infine, dalle Clarisse. Gli ugualmente monastici croccanti fatti con mandorle o nocciole e zucchero si prestano, invece, a sofisticare elaborazioni soprattutto di canestrini o coppe da riempire di struffoli, come ricorda Vincenzo Corrado nel suo libro “Il cuoco galante” scritto nel 1820 nel descrivere la tavola dei signori: “…le paste croccanti si vedono elevate ad elegante disegno, nobilmente decorate e disposte…Le croccanti, in realtà, sono più per l’occhio che per la bocca, ma l’occhio più che la bocca, decide del bello e del sontuoso della mensa…”
Giudizio ingeneroso visto che oggi traghettano i golosi da Natale all’arrivo del nuovo anno in uno con il torrone, altro dolce della tradizione natalizia nazionale e non soltanto campana, protagonista di altre ricorrenze come il 2 novembre, giorno dedicato ai Defunti. Un composto di albume d’uovo, miele, zucchero, farcito mandorle, noci o nocciole e ricoperto dai due classici strati d’ostia; sulle tavole sia nella versione dura che morbida e di varia dimensione.
Rococò, mostaccioli e raffioli
Nel 1320 le Monache del Real Convento della Maddalena in Napoli creavano il rococò, un dolce a forma di conchiglia, speziato al pari dei susamielli per il pisto a cui si aggiungono farina, zucchero, arancia e cedro canditi, mandorle pelate ed infornate, un po’ di ammoniaca, buccia di limone grattugiata ed infine, per dorare, le uova sbattute. E’ lui ad annunciare il Natale: è o meglio era usanza chiudere il pranzo dell’8 dicembre, festa dell’Immacolata mangiando dei rococò da accompagnare, essendo duri, da uno di quei liquori abituale nelle famiglie borghesi: Vermut, Marsala od un Vin Santo.
Già, il Natale campano ha il profumo delle spezie presenti anche nei mostaccioli dalla caratteristica forma romboidale, ricoperti di cioccolata fondente e, tra gli ingredienti, zucchero, miele, farina, cannella, scorza di limone grattugiata, un pizzico di sale, cacao amaro ed acqua tiepida per impastare il tutto. Oggi al pari degli altri dolci a pasta dura o morbida, di varia forma e – altra piccola variazione – glassati con cioccolata bianca. Immancabile presenza nel cartoccio che accompagna i golosi dalla Vigilia di natale all’Epifania quella dei raffioli, nati dall’estro delle Benedettine del Monastero di San Gregorio Armeno posto nel cuore del centro antico napoletano. Vollero creare un raviolo dolce di forma ellittica, da qui il nome, preparato con una pasta simile al Pan di Spagna e ricoperto da una glassa bianca a base di zucchero.
Divino Amore, zeppole, cassate e pastiera
Dal Monastero domenicano del Divino Amore fondato a Napoli agli inizi del XVIII secolo dalla Serva di Dio Suor Maria Villani proviene una golosità che da questo prende nome. Il Divino Amore, appunto, mandorle sgusciate pelate, zucchero semolato, arancia candita, essenza di vaniglia, buccia grattugiata di un limone, uova e, per la copertura, cioccolato bianco e colorante rosa liposolubile che gli conferisce il caratteristico tradizionale, delicato colore Ed ancora altri dolci che confermano la fama di Napoli ma anche delle altre province nell’arte della pasticceria: zeppole fritte ricoperte da “diavolilli” e dall’onnipresente miele, cassate “napoletane” pastiere.
No, non è un errore. L’Epifania veniva festeggiata con una pastiera, la prima delle tre che scandivano l’anno: la seconda a Pasqua, la terza a Pentecoste A Giugliano, paese tormentato tra le province di Napoli e Caserta dove nel 1566 nacque Giambattista Basile autore de “Lo cunto de li cunti” se ne prepara una fatta con grano intero, uova, miele, canditi, ricotta in letto di pasta sfoglia e, contrariamente alla tradizione, senza crema pasticcera ed acqua profumata di rose. Ricetta caduta nell’oblio e fortunatamente recuperata grazie ai ricordi delle anziane del luogo. Accadrà lo stesso per le crespelle salernitane a base di uova, sugna o burro, zucchero a velo, sale, fritte in abbondante olio di oliva, ricoperte da una miscela di cioccolato grattugiato sciolto in acqua bollente, zucchero e nocciole abbrustolite private della pellicola e tritate abbastanza finemente oltre a cedro candito, zucchero a velo mescolato a polvere di cannella e gli immancabili “diavolilli”?
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