Cosa ci vuole per fare un grande vino dolce, un passito? “Il sole” direte. Ebbene: la risposta è sbagliata. “Ci vuole l’acidità” è quella corretta.
Meglio ancora: una perfetta ammagliatura, un abbraccio tra dolcezza e freschezza. E’ questo l’ingrediente per non inciampare nella stucchevolezza, per donare un profilo sensoriale pulito, invitante e una buona bevibilità al prodotto.
Non solo sole, insomma. Cristalli di ghiaccio e muffa nobile aiutano la concentrazione degli zuccheri tanto quanto l’appassimento. Piano piano l’acino implode e raggrinzisce il tenore acido si abbatte mentre sale quello degli zuccheri e gli aromi vanno arricchendosi lungo il percorso.
Cosa fa del vino dolce, tanto di sovente accostato all’animo femminile, un affare da uomini?
Tenere sulla pianta i grappoli d’uva è sempre una scommessa con la natura per non dire quella con il portafogli. Un vino dolce è un investimento notevole per questa ragione, nella gamma delle aziende, risulta un po’ come una chiosa di prestigio : molta cura in vigneto, tanta manodopera, bassa resa vino/uva e tempi lunghi. Non ci sono scorciatoie se non quelle di un appassimento fatto in camere ventilate, ma anche per quello occorre poter approfittare dei rendimenti di scala. Le piccole aziende generalmente scelgono la strada dell’appassimento in vigna e quello su graticci o fili.
Queste sono le mie considerazioni sui vini dolci campani in degustazione al Vinitaly allo stand della regione Campania il 10 aprile scorso. L’incontro ha offerto l’occasione per fare una piccola panoramica sulla produzione della regione che, a parte alcune etichette di consolidata tradizione come l’Eleusi di Villa Matilde, il Mel di Antonio Caggiano, e il Privilegio dei Feudi, e altre sperimentazioni, tutto sommato, va ancora implementata.
Negli ultimi anni, con un significativo contributo del beneventano al quale uve in abbondanza per divertirsi con la tipologia dei dolci davvero non mancano, la regione evidenzia una buona dinamicità. In particolare per quanto riguarda i vitigni a bacca bianca.
Penso alla lavorazione della Falanghina, vitigno protagonista di una bella rivalsa anche nella versione secco, del Fiano, sopratutto, ma anche a Aglianico, Piedirosso e Primitivo o a vitigni meno affermati come Pallagrello, Catalanesca, Moscato di Baselice, Biancolella, o anche , il Casavecchia, il Barbera del Sannio, il Sommarello e cosi’ via.
I dolci in degustazione
Mel 2004 – Antonio Caggiano
Un dolce fatto ad arte da uno dei produttori dai quali negli anni Novanta ha mosso la rivoluzione del mondo del vino campano. Un’etichetta che con la sua dozzina d’anni di storia offre una buona affidabilità. Il Fiano (70%) e il Greco (30%) sono le punte del tridente bianco campano, con la Falanghina. L’interpretazione di Caggiano è efficace: sottigliezza, eleganza e freschezza. Complice l’acidità tipica dei vitigni , Mel si gioca su un buon equilibrio tra zucchero e acidità. Alla vista è brillante e dorato. Al naso è abbastanza intenso, con una bella nota di cedro candito e albicocca. In bocca lungo e avvolgente, ma con un saluto lieve e ammaliante.
Eleusi 2005 – Villa Matilde
Ecco un’altra interpretazione “storica”, quella di Tani e Maria Ida Avallone. Eleusi era la città dove si svolgevano nell’antica Grecia i misteri omonimi che, nella ricostruzione della disperata ricerca di Demetra della figlia Persefone rapita da Ade, celebravano la rivincita sulla morte e, in senso lato, della natura, come buon auspicio per il raccolto.
Alla vista il vino è brillante e ambrato, si muove lento nel bicchiere. Al naso esuberante, con note di frutta in marmellata e secca e qualcuna di vaniglia. In bocca ha un attacco bello dolce e si amplia senza dar segno di pesantezza. Riesce a contenere la dolcezza con una freschezza adeguata. Decisamente lungo con dei ritorni di frutta secca.
Jocalis 2006 – Aia dei Colombi
Un’altra Falanghina. Interessante è il confronto con quella casertana di Villa Matilde e quella successiva dei Campi Flegrei. E’ questo uno dei vitigni che, per la sua amplissima diffusione, e per la riconsiderazione delle sue potenzialità espressive, decisamente ha da ritagliarsi un bello spazio anche nella tipologia dolce. L’azienda di Nino e Marcellino Pascale a Guardiasanframondi sfodera, grazie alle condizioni climatiche tipiche di una zona interna e ben ventilata come la loro, un passito piacevole. Alla vista dorato ambrato e brillante. Al naso gioca una serie di sentori crema pasticcera e frutta secca, in bocca dopo un ingresso abbastanza morbido, si colloca a sorpresa a centro bocca con una marcata sensazione zuccherina, ma riesce poi nella corsa in uscita con freschezza lasciando il palato pulito.
Passio 2006 – La Sibilla
Falanghina dicevamo, ma tutt’altra, della magica zona dove la terra non si stanca di agitarsi e ardere. Nei Campi Flegrei, con vigne su terrazze digradanti verso il lago Fusaro, Luigi Di Meo e Restituta, con i figli, allevano le piante per questo passito con la classica spalliera puteolana. Siamo tra i 150 e i 300 metri sul livello del mare. Più giù ci sono il Piedirosso, la Falanghina per il prodotto base e per il cru Crunadelago, oltre all’uva Marsigliese, “Mezza aglianico” e “Algianichella” che danno vita al Marsiliano. Passio ha dalla sua il carattere, un’interpretazione decisa e pulita del vitigno. Il colore è dorato e brillante. Al naso ha una bella intensità di frutta secca, con fichi e albicocca in evidenza. In bocca sfodera un bel equilibrio tra dolce e fresco, ma mostra appena appena un sentore tannico che lo appesantisce un po’. Luigi spiega che è questa l’ultima annata che l’uva è fermentata senza sgranellatura (conservava il picciolo prima) il vino ha fatto ben 24 mesi di affinamento in barrique, forse troppi. L’acciaio gli donerà maggiore leggiadria.
Giardini Arimei 2005 – Giardini Arimei F.lli Muratori
Ecco un vino che è difficile collocare in una sequenza di degustazione di vini dolci. Con ciò esattamente riuscendo nel progetto che esso rappresenta, Giardini Arimei è un passito non passito, un dolce secco da spendere anche come vino da conversazione. Franco Iacono, enologo e vicepresidente dell’Arcipelago nel quale rientra Giardini Arimei, proprietà di Forio d’Ischia, lo ha voluto esattamente così. Il vino fermenta lungamente con una sorta di rigoverno che si ripete, spiega, per ben 7 volte. Da settembre (una volta era il giorno 10, festa di Santa Maria) a dicembre le uve sono raccolte a diversi gradi di maturazione: si passa da quelle turgide del “maturazione fisiologica” a quelle “appassite” sulla pianta dell’ultima vendemmia, passando per quelle surmature. La prima volta l’uva è solo pressata e messa nei palmenti restituiti, da un lungo restauro, alla piena funzionalità, le successive l’uva è sgranellata. Il risultato è indefinibile. Alla vista il vino è ambrato e brillante. Al naso non particolarmente espansivo, ma con delle note di frutta candita e fichi bianchi, e soprattutto foglie di fico. Questa sorta di nota fresca, chiamamola verde, torna in bocca imprimendo un carattere particolare al vino che è ostico definire solo dolce. E’ esattamente dolce secco. Finisce asciutto e lascia un ricordo di erbe mediterranee.
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