Valerio Massimo Visintin
Dietro Le Stelle, il lato oscuro della ristorazione italiana, Mondadori
pp.146, euro 17,50.
Anzitutto vorrei rassicurare il lettore sulla mia serietà professionale. Un paio di lenti scure, una mascherina FFP2 Modello Speranza, felpa nera con cappuccio: mi sono presentato così irriconoscibile alla Coop Ambasciatori di Bologna dove ho comprato in anonimato, invece di farmelo mandare dall’Ufficio Stampa secondo il classico rituale della casta, il libro di Valerio Massimo Visintin, “Dietro Le Stelle, il lato oscuro della ristorazione italiana” edito da Mondadori.
Il mio assoluto anonimato, oltre che lo scontrino senza sconti, vi garantisce l’assoluta obiettività di questa recensione :-).
Scherzi a parte, la prima sensazione è di assoluto straniamento: tutto quello che pensavo di positivo dell’enogastronomia italiana è in realtà un inferno dantesco popolato da malfattori, imbroglioni, improvvisati, sfruttati, sfruttatori, giornalisti eticamente scorretti, malavita, dilettanti, signorine e signorini dai facili costumi. Una rappresentazione a mio parere completamente falsata della realtà presa nel suo complesso.
Ma a ben pensarci, molto di più secondo Visintin: in un paese che non pensa altro che a ruminare e a mangiare, con le città assediate da proposte di cibo, con questi coglioni degli italiani che invece di andare a mostre, concerti e cinema si travagliano fra Poke finanziati dai narcotrafficanti, Sushi sostenuto dalla Yacuza, Pizza lievitata e fermentata dalla Camorra. Insomma l’incipit del libro è tragico. Verremo tutti trasformati in statue di sale. Maldon benitenso.
L’ossessione di Valerio sono gli stellati, che per sua stessa dichiarazione, rappresentano lo 0,1% della ristorazione italiana. Ed è proprio questo il punto debole del mattoncino su cui assestare il colpo di karatè: ma perchè scrivere un libro, che sfrutta nel titolo lo stesso termine Stelle, sullo 0,1% della ristorazione rinunciando ad analizzare il restante 99,9%?
Intendiamoci: il libro è gradevolissimo, Valerio Visintin ha una bella ed efficace scrittura da polemista nato, creatore di personaggi, da Vizzari definito il Piccolo Cesare al povero Paolo Marchi continuamente e meritatamente strapazzato come le uova delle colazioni anglosassoni dall’inizio alla fine, al punto di farlo diventare innocente come Berlusconi per troppe imputazioni. Ha gioco facile nel dimostrare i conflitti di interesse di Identità (ma non solo) che premia spesso testimonial e utilizzatori dei propri sponsor e l’inadeguatezza numericamente della Michelin a rappresentare realmente la ristorazione italiana. Essendo illuminista lombardo si affida alla logica dei numeri ma a noi socratici della Magna Grecia basta un colpo d’occhio per capire che la rappresentazione della realtà della rossa è ormai lontanissima dalla vita quotidiana della ristorazione italiana. Il Nostro ha poi gioco facile nel deridere (però questo è un segnale borbottone dell’età che avanza anche per lui) food blogger e influencer privi di competenza che giocano sulla immagine o facendo le smorfiette su Tik Tok dove lui da mascherato sarebbe un guru.
Visintin, come del resto Ziliani nel vino vent’anni fa, hanno indubbiamente avuto il merito di rompere un certo unanimismo conformista nella narrazione gastronomica. Il punto è che entrambi mi sembrano diventati prigionieri del personaggio (e toglilo sto mascheramento porno fetish) che si sono costruiti costituendo una sorta di grillismo ante litteram del mondo enogastronomico in cui dopo la parte destruens non viene niente. Questo crea una visione troppo manichea della realtà che finisce poi per diventare una ideologia incapace di leggere quello che sta succedendo, inadatta a proporre soluzioni, indicare sbocchi.
I fatti sono questi, ci sono cuochi che cucinano per la Michelin, e sempre così sarà per molto tempo, fino a quando cioé la rossa farà anche mercato. Cosa che ho l’impressione in certi contesti stia finendo dietro i colpi della crisi, pandemica prima e bellica poi. Ma se la Michelin ha preso tanto piede in Italia è perchè le guide tradizionali hanno rinunciato al loro compito statutario, di essere cioè dalla parte del lettore: difficile resistere agli introiti pubblicitari e alle pressione degli sponsor. L’essere poi rimasti con la zavorra cartacea ha appesantito i conti e i costi, come al solito,sono stati tagliati sui collaboratori molti dei quali hanno preferito andarsene, altri invece hanno cercato in qualche modo di sfangare la giornata non andando sui luoghi, telefonando o semplicemente copiando da internet. Con l’abbassamento della qualità è venuta meno anche l’influenza delle guide tradizionali. Ma il fenomeno è generale e molto più profondo di quanto lo stesso Visintin immagina: una mia ex collaboratrice che voleva fare la giornalista e la comunicatrice al tempo stesso è riuscita diventando portavoce di una condotta a piazzare tre clienti su tre nelle pizzerie di Osterie Slow Food e inserirle contemporaneamente nel sito di Identità Golose. Ora sta in un’altra parrocchia ancora, sempre nazionale. Spesso e volentieri il negativo al Sud è un prodotto del Nord.
Detto tutto questo, il libro sembra più parlare del passato che del presente e soprattutto non delinea futuro se non in un appello etico al rispetto dei ruoli e di quanto previsto dalla legge sulla stampa in merito alla distinzione fra pubblicità e lavoro redazionale. Il punto è che blog e social non sono regolati da questa legge (questo sito si perchè è registrato dal 2010) ed è un vero Far West.
Il segreto è avere un giusto rapporto con lo sponsor di indipendenza e autonomia, come del resto sa lo stesso Visintin i cui corsi di giornalismo sono stati sostenuti, per esempio, dal Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana.
Dunque, riassumendo: il libro va comprato, si legge facilmente e si arriva agevolmente alla parola fine, che non è però una conclusione. Sapendo che abbiamo parlato dello 0,1% della ristorazione e che compito di una critica e di un giornalismo autonomo è quello di parlare del 100%, che non nè Sodoma e nè Gomorra, ma popolato da centinaia di migliaia di persone che lavorano, combattono con le vessazioni statali e nella incertezza, migliaia di giovani che hanno l’orgoglio di fare un mestiere, migliaia di piccole aziende agricole che proprio grazie a questo sviluppo hanno trovato uno sbocco commerciale e che tutto questo rappresenta una fetta importante di PIl e di Export. Non è colpa del mondo gastronomico se altri settori sono scomparsi dalla scena o hanno poco da dire.
E, al tempo stesso, non si può essere populisti gastronomici e poi criticare le città piene di locali che fanno cibo. Anzi, proprio questa circostanza rende adesso più affascinante, indispensabile e importate il nostro lavoro distinguendosi dalla comunicazione: basta ignorare i cuochi che cucinano per la Michelin o occuparsi solo di quelli che lavorano per i clienti!
Ps Occhio alle piccole imprecisioni dovute alla foga polemica. Il ristorante stellato Sud a Quarto non direi che è in un locale di lusso mentre Laqua a Vico Equense di Cannavacciuolo non ha aperto un mese prima della guida, ma a luglio 2021.
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