“E’ un miope incapace di stupore chi nel cibo scorge oggi solo il frutto della tecnica che ha sostituito antichi attrezzi da lavoro o della scienza che ha inventato mutazioni genetiche.”
E. Bianchi, Il pane di ieri, p.37
Ritorno da Gemini frazione di Ugento dove incontro un amico.
Un gelato non degno di nota.
Rientro e mi trovo lungo la strada per Alliste, l’antica Kallistos, “La Bellissima” in griko.
E se passo per Felline? No, sarò al “Mulino di Alcantara” un’altra sera.
Bene. La rossa campagna argillosa mi fa compagnia.
Cosa fanno laggiù?
Nooo, son pomodori stesi al sole.
Un tuffo nel passato, forse ancora sul finire degli anni ’60: in questi giorni dalle mie parti, al di qua del Vesuvio, non c’era un cortile dove il rito del consevare pomodori non si celebrasse.
Su quelli in bottiglia ci ritornerò. Così pure ritornerò sulla passata che diviene conserva concentrata.
I San Marzano, ‘e pummarole a lampadina, tagliati a ddoje pacche, cosparsi con grani di sale stavano lì per giorni. Talvolta coperti da un candido velo per difesa dalle mosche erano a vista sorvegliati dalle nonne.
Solo una questione di sole: niente burrasche né temporali, se no tutto andava in malora.
E pummarole secche! Da mettere così in vasi di terracotta senza sigillare in un posto fresco della casa, mai all’umido e conservare per l’inverno.
Nella pignatella nonna Mariuccella lasciava andare un po’ di cipolla e lardo nell’olio. Poi ci aggiungeva qualche pomodoro secco rinvenuto. Un po’ di origano all’ultimo momento prima di condire ‘e trianielli, un formato di pasta appena più piccolo dei mezzanelli, spezzati.
Anche nella pasta e fagioli in bianco calava ogni tanto una pacchetella.
Devo veramente avere un cuore tenero se questa distesa di pomodori lasciati seccare al sole mi ha suscitato una qualche emozione.
Ma no, è stata la sorpresa di scoprire che per fare le cose buone basta ancora un po’ di sale e tanto sole!
Tommaso Esposito
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