Del perché le cene di presentazione in Italia sono quasi sempre un flop
Due consigli ai cuochi e due ai produttori
Mi rendo conto che, come si dice a Napoli, il sazio non crede alle ragioni del digiuno e che la riflessione che sto per fare può apparire snob, ma se ne è parlato di recente con alcuni colleghi e abbiamo verificato essere un tema presente da sempre un po’ in tutta l’Italia.
Diciamo che lo sottolineamo perché rivela immaturità commerciale e spesso professionale della filiera enogastronomica.
Di cosa parliamo? Dell’abbinamento tra cibo e vino a cui è dedicato tutto il terzo anno del corso da sommelier dell’Ais. Bene, con uno sforzo di memoria, potete andare con i vostri sensi consumati a tutte le volte in cui è stata organizzata una cena per presentare un vino e rispondervi in tutta sincerità alla domanda: ma lo chef sapeva cosa c’era in bottiglia?
Già, proprio così: è capitato anche alla cena finale dell’Anteprima Amarone che nessuno dei quattro piatti si abbinasse non solo al fantastico vino veronese, ma dico, neanche ad un Soave passato in legno. Ma è solo l’ultimo di una serie interminabili episodi che colpiscono al cuore i produttori di rosso, già un po’ molto a disagio per il fatto che il 90 per cento dei piatti dell’alta ristorazione non sono abbinabili ad alcun rosso importante in circolazione. Ma si sa, c’è l’export che supplisce a questa non lieve carenza strutturale nel rapporto tra vino e cibo con gli anglosassoni che anelano dolcezza e alcol come primo biglietto da visita.
Il motivo di questo andazzo molto singolare e tutto italiano, in Francia in queste occasioni lo chef è al servizio del produttore che presenta il vino e cerca in tutti i modi di costruire piatti in grado di esaltare il prodotto protagonista della serata, è che la quasi totalità dei cuochi italiani non conosce in realtà i vini che vengono venduti nel proprio ristorante, anzi, non conosce e non capisce il vino, tanto che spesso e volentieri si picca di questa ignoranza come di un elemento concettuale di pregio della propria identità gastronomica.
Se ci fate caso, infatti, è oltremodo raro, per non dire impossibile, trovare cuochi in occasione delle Anteprime più importanti d’Italia o nei banchi di assaggio. Quando ci sono, si tratta di mosche bianche, spesso sono soprattutto giovani mentre evidentemente le grandi firme ritengono disdicevole farsi vedere in giro a provare le annate di vini che poi formeranno dal 40 al 50 per cento del conto finali che presenteranno ai loro clienti.
L’apoteosi giustificazionista di questo atteggiamento è costituita dai continui pronunciamenti di Marchesi contro l’uso del vino in abbinamento ai piatti perché colpevole di rovinarli e di non farli gustare bene. Si potrebbe dire lo stesso del cibo per il vino, ma a questo punto l’impazzimento sarebbe totale perché il fine ultimo della tradizione gastronomica latina e greca è proprio nel rapporto costruito nel corso dei secoli tra il cibo e il vino, talché è impossibile concepire l’uno senza l’altro come modo essenziale dello stare a tavola.
Giudico questo fenomeno scandalosamente dilettantistico, nonché una delle basi della crisi della ristorazione perché solo chi capisce di vino oggi può rispondere alla domanda su cosa si mangia fuori casa.
L’ignoranza del vino fa da contraltare ad un altro aspetto. E veniamo a queste cene tragiche, la peggiore di tutte ad una degustazione di Taurasi anni ’90 in cui il piatto più pesante era un gambero crudo su emulsione di olio e limone: l’ansia di prestazione e la voglia di protagonismo.
Sicuramente noi della stampa siamo probabilmente tra i maggiori responsabili dei nuovi mostri in circolazione, perché quando i cuochi sanno che in sala ci sono alcuni giornalisti, o, peggio, in occasioni particolari come le Anteprime, decine di giornalisti, il motivo della presentazione del vino passa in assoluto secondo piano rispetto alla voglia di esibirsi, dimostrare di averlo grande e grosso e, peggio ancora, di stupire con piatti lontani dal territorio. Invece sarebbe prova di professionalità proprio la capacità di creare piatti da accompagnamento.
Presentare piatti sbagliati in queste manifestazioni così importanti è un grave errore di insipienza professionale, come andare da un meccanico per sostituire un freno e scoprire che ha cambiato la batteria. Fossi un produttore chiederei i danni.
Allora questo articolo è un invito al ritorno verso la semplicità perché è un peccato che organizzazioni perfette come un orologio svizzero a cui si lavora per mesi siano rovinate dalle velleità di uno chef di mettersi in primo piano al posto del protagonista della serata. Perché poi è di questo che si parla il giorno dopo, non del fatto che tutto è filato alla perfezione.
Vorrei dare due regole semplici semplici per gli chef impegnati in queste manifestazioni dopo aver consigliato loro di prendersi almeno un diploma Ais a completamento del loro percorso professionale.
Primo: non più di tre piatti, senza dolce
Alla sera si arriva stanchi, c’è voglia di tornare a letto o casa. E’ bene allora presentarsi con una proposta secca di antipasto, primo e secondo con frutta o formaggio finale senza il dolce che impone una rivisitazione del bicchiere e non serve a nulla. L’ideale sarebbe addirittura un antipasto e un piatto principale.
Secondo: solo cibo di territorio
A parte lo Champagne, non c’è vino che non debba essere servito con il cibo del territorio in cui è maturato ecologicamente nel corso dei secoli e dei decenni. Del resto i giornalisti girano in continuazione e quello che non vogliono assolutamente è trovare piatti lontani dalla tipicità. Spazio dunque alle ricette e ai sapori con cui si accompagna usualmente il bicchiere.
Ai produttori invece consiglio
Primo: rivolgersi ad un sommelier
Il primo passo per capire cosa chiedere allo chef è sapere il range di abbinamenti possibili al proprio prodotto
Secondo: concordare il menu nei dettagli
Necessario per evitare sorprese. Dal momento che pagate, dovete esigere che il cuoco sia al servizio del vostro prodotto e non usi la vetrina che gli offrite per esibirsi in modo narcisistico. In questi casi, il vero chef professionista è quello che non si fa notare, che accompagna i bicchieri con un deciso sottofondo gastronomico non urlato, giusto e di buon equilibrio. Per dire: una tagliata di manzo con una pioggia di bucce di arancio come usa oggi trasforma il piatto da rosso a bianco.
E dunque, a quando un po’ di cinghiale in umido al posto dei gamberi crudi con Taurasi, Amarone, Brunello e Amarone?
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