Ristorante Carignano a Torino
Via Carlo Alberto 35
di Giulia Gavagnin
Millemila anni fa, quando eravamo giovani e io coltivavo la mitologia dei ristoranti di lusso sognando ad occhi aperti sulle guide cartacee (pensate un pò, vecchio scarpone quanto tempo è passato), c’è stato un momento in cui se ti piaceva l’haute cuisine o anche solo la sua idea e volevi capire la vera avanguardia più sentirti molto intelligente e à-la-page dovevi andare assolutamente al Combal.Zero di Rivoli, sotto le alpi Cozie, dove ai piedi del castello dello Juvarra officiava Davide Scabin, il genio ribelle dell’enogastronomia.
Un tizio strambo che voleva fare l’hacker e non il cuoco il quale –dicebant- pareva stravolgere tutte le regole precostituite della cucina italiana, uno che inventava pasticche di sale, pomodori definitivi, uova cibernetiche e, last but not least, viveva di notte in una maniera che sarebbe stata poco cara al vostro parroco, un po’ come il se stesso del vecchio, caro Bukowski.
Erano proprio altri anni. C’era ancora la fascinazione per la vita spericolata, il calcio era quello di Maradona e non di Cristiano Ronaldo, non c’era il codice della Strada di Salvini, i sessantenni non facevano la mezza maratona nè bevevano tè verde e alga spirulina per sperare (invano, ca va sans dire) di sembrare trentenni, e anche la pellicola per fare il Cyber-Eggs (Scabin dixit) era un’altra cosa.
Era la fine del Novecento, i ristoranti di pregio erano dello chef patron e della di lui famiglia e giacevano ancora in località improbabili (alzi la mano chi sua sponte sarebbe andato senza “quel” ristorante a Canneto sull’Oglio, a Cassinetta di Lugagnano, a Isola Rizza, a Rubano, a Baschi, a fare cosa, consultare il piano regolatore?) e pertanto, senza Scabin non ci sarebbe stata nessunissima buona ragione per andare a Rivoli fatta salva una passione smodata per i castelli sabaudi e i cavalli appesi come quello di Cattelan all’interno del relativo museo che data 1997 proprio come l’uovo di Scabin, guarda che caso.
Sì, perché l’iconico uovo ricoperto di pellicola è stato il primo, vero oggetto di food-design che oggi starebbe bene in un museo come il cavallo di Cattelan, ma siccome a tutto questo non ci siamo ancora arrivati o forse non è così importante, nel nuovo posto dove officia Scabin, l’asettico Carignano all’interno dell’Hotel Sitea, guardacaso in zona museale (Egizio et altre amenità sabaude), va in scena il menu celebrativo di Scabin che è come dire una sera al museo della cucina.
Che a partire dalla veste grafica in cartoncino pregiato rivela quello che è stato Scabin, ossia l’ultimo grande cuoco del Novecento (i caratteri sono quelli del periodo futurista, mi verrebbe da dire del Ventennio, ma siccome chi legge e scrive di food ha spesso il chip dell’idiozia incorporato non vorrei gli scattasse il mantra “allarmehsiamohtuttiantifascistih”), e perciò è una grande operazione Nostalgia che prenderà il cuore di chi si bullava di andare a Rivoli e di fare le tre del mattino quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole credendo di aver partecipato al rito satanico dello sciamano dell’innovazione culinaria e invece no, quei piatti erano di un conservative che uno non ha idea, roba da Metternich che siede al tavolo con Margaret Thatcher affinchè tutto cambi perché niente cambi.
Così, in questo percorso che abbraccia mas o meno una quindicina d’anni (1996-2011) si capisce una cosa, che quel periodo di futurismo culinario anche se sembra una vita è in realtà durato poco più di un lampo come il Futurismo vero, come un temporale che fa rumore ma poi arriva il sereno e uscimmo tutti a riveder le stelle, e infatti, ai tempi in cui gli stolidi avevano bisogno di idola, su Scabin hanno scritto tante scemenze anche un po’ esagerando a incensarlo e a titillare il suo non sempre sopportabile ego (dai, su, tutti insieme in coro diciamo: non ha mica inventato la penicillinah!) ma l’unica cosa giusta la scrisse chi lo definì il Marinetti della cucina, il che è verissimo, perché sotto le forme distruttive e poco ortodosse Marinetti era un letterato finissimo di stampo classico come Scabin è un cuoco superbo di stampo classico e poi era molto di destra, solo per questo ai sapienti ricordarlo fa tra lo schifo e la paura, poveri cuccioli.
Ordunque il menu inizia a far data da quello che i più anzianotti dicono essere stato il periodo migliore di Scabin, quando era ancora ad Almese che è vicino a Rivoli ma più imbucato, nel primo Combal che era (mi dicono) una specie di sottoscala in cui faceva vitello tonnato per tutti e piatti strambi per pochi che li ordinavano in segreto (non sappiamo se sia così, agli anzianotti piace sempre dire che il meglio è alle spalle a quando eravamo giovani).
Anni Novanta, era proprio un altro mondo: c’era ancora la lira, il telefono cellulare era una cosa da ricchi e infatti ce l’aveva solo la mia prof. di diritto ecclesiastico che poi è diventata presidente del Senato, i cuochi lavoravano diciotto ore al giorno e non gli passava per l’anticamera di fare serrate sindacali per avere il week end libero sennò la fidanzata si arrabbia; per giunta, non si facevano tatuaggi da calciatore tamarro e non c’era l’Instagram, di talchè non potevano caricare trecentodue foto al bimestre di cui trecento in palestra e due in cucina. Quindi, era ancora l’epoca del lavoro e non, come oggi, del tempo libero, e per il principio di Aristotele e di Picasso per cui il talento conta il 5% e il sudore il 95% se uno si sbatteva in un sottoscala e faceva parlare di sé prima dell’epoca dei social e di Masterchef, significa che sapeva fare il suo lavoro.
Così, in quel tempo, Scabin si conquistò una talquale fama facendo piatti stravaganti come l’ostrica virtuale (oggi riproposta in questo menu al Carignano dove –Santamariaverginebeata- mostra una modernità sconcertante) e una creazione chiamata Bulgari che, oltre a essere un piatto di Ferranadrià senza che lo sapesse Ferrandrià, doveva ricordare a suo dire la sensazione di un cunnilinguo, cosa che se uno qualsisasi lo facesse adesso lo arresterebbero di corsa per oltraggio alla morale pubblica e offesa a tutte le donne del mondo.
In realtà erano tutti piatti che proponevano uno stilema assai classico, era il modo di presentarli, il packaging, i contenitori, il messaggio a farli apparire tanto bizzarri, ma quel che c’era dentro seguiva regole rigide, la sequenza di Fibonacci, l’uno-e-trino, il canone di Policleto e solo agli occhi dei più superstiziosi anche il sangue di San Gennaro.
Fu per questo smodato utilizzo del packaging, di cornici, scatolette, ampolline e chi più ne ha più ne metta che due lustri fa lo scrittore cattolico di destra Camillo Langone scrisse che più che piatti erano ”trovatine” e lo chef commentò che detto scrittore per dire una corbelleria del genere doveva avere qualche problema con la sua mascolinità (non lo disse proprio così, del resto sia Langone che Scabin sono maschi bianchi eterosessuali della tipologia di destra, dell’epoca precedente a quella odierna in cui essere maschio bianco eterosessuale equivale a essere “maschio tossico”, ed era perfettamente normale allora per i maschi bianchi eterosessuali lanciarsi frecciatine perché allora l’uomo era lupo all’uomo e non navigava nel mare dell’indistinto, della serie non ci sono più gli uomini e le donne di una volta).
Tanto per capire, al periodo del primo Combal appartiene anche il celeberrimo Cyber-Eggs (ripetete con me: con la –s, santa pazienza, sono tante uova, di storione e di gallina, eppure tutti, anche i sapientoni scrivono Egg), quello con la pellicola che si incide col bisturi e si succhia, un oggetto di food design prima che esistesse il food design, cui poi ispirò persino un ingegnere cinese che si faceva fotografare in buffe pose da samurai con la katana, tale Alving Leung, bistellato a Hong Kong che ideò “Sex on the beach”, un preservativo edibile di konjac e miele, che non ho mai assaggiato, ma ho idea che sia meglio il Cyber.
Il Cyber-Eggs è perfetto figlio della sua epoca, della fase “decadentista” dell’Italia che si è lasciata alle spalle gli anni Ottanta e il suo edonismo e ne rielabora le forme. In cucina c’era stato il classicismo mitico di Marchesi che dalla foglia d’oro transitò le colonne d’Ercole verso il pollockismo, Scabin fa un po’ lo stesso sostuendo all’arte plastica un approccio concettuale in chiave pop come Andy Warhol e la sua seriale Campbell Soup.
Dopo quel periodo bruciante, invero non troppo lungo, la stella di Scabin si è spenta, non è un caso che il piatto più recente di codesto menu celebrativo sia del 2011; nel 2015 la Michelin gli tolse la famosa seconda stella e non valsero né i famosi lamenti delle prefiche del food né l’accorato Ju Suis Scabin di Bob Noto a rinsaldare la portata della sua figura, perché alla Michelin sono stronzi ma non scemi, io non c’ero e non ho competenza per parlare, ma le date parlano chiaro e la Storia è sempre la maestra più severa.
Probabilmente, siccome non mi sono mai immaginata Scabin bere tè verde e alga spirulina come gli odierni vecchi-finti-giovani, né fare yoga alle sei del mattino dicendo “ohmmm”, il suo lifestyle non ha giovato alla longevità culinaria, credo anche che molto abbia influito la prematura scomparsa di Bob Noto che era (anche) suo ideologo e ispiratore; in ogni caso la sua forma mentis è novecentesca, del secolo breve, dell’epoca dei sistemi e della materia e non la nostra del fluire dell’indistinto e dell’immateriale, e quando la storia decide che sei fuori non c’è proprio niente da fare.
Nell’ultimo decennio avevo amici che andavano al Combal.Zero e non mi sapevano raccontare un piatto che avevano mangiato che fosse uno ma solo che avevano fatto le tre del mattino con lo chef nella famosa stanzetta dal tavolo rosa e mi facevano un po’ peccato perché pensavo che signori di cinquant’anni e oltre che si gasano perché fanno tardi con uno sconosciuto a tarallucci e vino e quintali di sigarette spente non devono avere una vita così interessante e, in ogni caso, non si meritavano l’ultima grande cucina del Novecento.
La quale, per tornare al menu, come sempre declinato secondo la regola dell’up-and-down (dal piatto più pesante e proteico a quello più leggero, sempre per la famosa identità da bastian-contrario) per la sola fassona al camino vale il (costoso ma non caro) prezzo del biglietto nonché il viaggio, perché è probabilmente il più grande piatto di carne alle nostre latitudini degli ultimi trent’anni; il rognone al gin ci sta appena appena sotto ma nel suo essere demodè ha tutte le carte in regola per essere un classico, con una salsa semplicemente stupefacente (nota ludica: stavolta sapeva davvero di gin, forse non era finito nelle tisane del retrobottega), poi a un certo punto è giunto un brodo di fassona in una tazza con un gorilla disegnato (..) e un altro brodo più freddo per giocare con le temperature e allora lì capisci che l’indubitabile grandezza di Scabin è nella capacità di giungere all’essenza della materia, non nei giochetti di prestigio dei contenitori e delle consistenze.
Poi in mezzo c’è il tataky di melanzana che indaga i toni dell’amaro ma che più a esaltarmi in sé, è accompagnato dal tomato-combal-blend che è un’altra delle intuzioni da cuoco vero di Scabin: tre pomodori, uno per la buccia, uno per la polpa, uno per il succo per la ricerca dell’acidità, e se uno tira fuori il pomodoro perfetto a Rivoli vuola dire che qualcosa ne capisce.
Soufflè di maccheroni e Langarol non sono mai stati la mia passione (parliamo comunque di altissimo livello, eh) , arriva la zuppizza in versione riveduta e corretta, ma non aggiunge nulla a ciò che era; del cyber si è ampiamento detto, e si finisce con i famosi palloncini che ti fanno parlare da paperino e il campari.
Un po’ bonjour tristesse, ma diciamolo ancora una volta. Nulla (e nessuno) è eterno, solo l’amore è eterno finchè dura.
In verità, il menu celebrativo dell’ultimo cuoco del Novecento è una grande messinscena della Nostalgia per un’epoca che non tornerà più e che è durata meno del previsto: una buona occasione per deprimerci perché ci fa capire quanto siamo diventati vecchi senza essere diventati grandi.
Ristorante Carignano
Via Carlo Alberto 35
Torino
Scheda del 21 novembre 2023
Davide Scabin e Los Muertos al Ristorante Carignano di Torino
di Giulia Gavagnin
Un matrimonio apparentemente ardito. Quello tra le stanze novecentesche del Grand Hotel Sitea, storico hotel a cinque stelle nel centro di Torino, e la cucina di Davide Scabin, il controverso chef di Rivoli che fece dell’upside-down – il sottosopra- la sua filosofia di vita e cucina.
Dopo le vicende non felici legate alla chiusura del Combal.Zero e l’interlocutoria esperienza al Mercato Centrale di Torino – di certo non all’altezza delle sue indiscusse capacità – nell’enclave ricavata all’interno dell’hotel che già ospitava il ristorante stellato, Scabin propone un unico menu degustazione a tema, che cambia approssimativamente ogni sei mesi.
Un progetto ardito, non per tutti, stemperato dalla più accessibile proposta del bistrot “Carlo e Camillo”, dove il tema è un viaggio gastronomico à-là-carte tra le regioni d’Italia.
L’apparente divergenza di filosofia cui si è accennato in intestazione tra l’atmosfera “belle epoque” dell’hotel e la cucina avanguardistica di Scabin è in verità cosa trascurabile, dettata più da un’idea astratta di cucina d’avanguardia che dalla realtà fattuale. Già ai tempi del Combal.Zero la cucina dello chef di Rivoli s’era fatta bourgeois, con piatti di grande solidità e concretezza. Se il celebre Cyber-Eggs è stato invenzione dei tempi del Combal di Almese, creazioni stupefacenti come il Rognone al Gin e la Fassona al Camino trovavano fondamento in una percezione atavica del gusto, dove la base dell’idea era dettata dai polverosi libri di ricette di Casa Savoia.
Idealmente, l’attuale menu (cambierà a breve, entrando nel vivo del clima invernale) è dedicato alla festa messicana dei morti, Los Dias de Los Muertos, quella in cui si esorcizza il trapasso scambiandosi le calaveras, i variopinti teschi anche sotto forma di caramelle per bambini. Una festa atavica di rinascita, dove la morte è un passaggio transeunte della vita.
Il menu si chiama LGBT, ma la denominazione non ha nulla a che vedere con le attuali sciocchezze ideologiche del pensiero occidentale woke e delle minoranze oppresse; significa in realtà Long Gourmet Brainstorming Time, due ore e mezza, quasi tre per definire un’idea di gusto.
Se l’ideologia sottesa a questo menu è piuttosto velleitaria, il dipanarsi del percorso –quantomeno con riferimento ai primi cinque piatti- è entusiasmante senza essere sconvolgente nel senso caro a chi persegue l’avanguardia a tutti i costi (noi perseguiamo una più banale idea di buono, le sofisticate riflessioni sull’arte povera e i Kounellis della cucina li lasciamo ad altri). Non esito a dire che nella prima tratta mi sembrava di essere in un grande tre stelle francese, se posso azzardare un nome, da Troisgros. Poi è sopraggiunta una flessione, soprattutto con i piatti di stampo vegetale, e con il piatto “marchesiano” a conclusione del menu.
Tuttavia, in questo percorso ho trovato la caratteristica indiscutibile di Scabin: quella di saper accostare elementi disarmonici in un’armonia che se tentata da altri, ne uscirebbero i peggiori obbrobri gastronomici.
Un esempio su tutti: ostrica, banana verde, chorizo, zuppetta in stile Thai. Banana e ostrica: chi altri saprebbe trarne armonia invece di cacofonia alimentare, a prescindere dal cotè ideologico sotteso al piatto?
Partendo dall’inizio del percorso il solerte sommelier posiziona una clessidra sul tavolo. Il menu segue il tradizionale percorso scabiniano “Up and down”, prima i piatti più consistenti, i più leggiadri alla fine. L’inizio è roboante, le posate d’argento vengono appoggiate al contrario per evidenziare le signature storiche dell’hotel, un’iperconservatrice “costoletta d’agnello alla Villeroy” su un’alzatina dà avvio al percorso, accompagnata da una “printaniere” di verdure al beurre blanc (e no, è evidente che di avanguardia spagnola qui non c’è proprio nulla). Sembra la naturale prosecuzione della fassona al camino, uno dei piatti carnivori più straordinari nella storia della cucina italiana.
Si prosegue con Arrosto di foie gras con pomodoro “Combal Blend” e basilico bollito. Anche qui, la scaloppa di foie gras con un pomodoro che più mediterraneo non si può, chi saprebbe proporla?
Ancora: animella e triglia che convivono senza essere legate con alcuna salsa; savarin di riso (classicismo spinto, altro che avanguardia) finferli e unagi con chiocciole in persillade, brodo di aglio e gin “Amuerte”; una straordinaria zuppa di cipolle ghiacciata chiudono la parte da 10 del percorso.
Più evanescenti la “vissaniana” scaloppa di sedano rapa tostata con gruè di cacao, rucola, caffè e caviale al mandarino e gli asparagi e avocado bruciati alla senape con salmone Sockeye e tuorlo alla noce moscata: certo, la stanchezza a un certo punto si fa sentire.
La chiusura è opzionale tra mango alla brace e Pina Colada e Astice con frappè di peperone, gelatina di fondo bruno e tartufo nero. Ho optato per l’ultimo che mi ha riportata al ricettario di Marchesi “la mia grande cucina italiana”, perché qui di grande cucina italiana si tratta.
Percorso di abbinamento al bicchiere di assoluto livello, tra Champagne rosè, Bourgogne rouge, Bordeaux Blanc, il Fiano di Luigi Maffini (a mia richiesta) e i cocktail tradizionali apprestati dal barman “d’altri tempi” Beppe Loi.
Giunti al termine di questa esperienza che rasenta davvero l’eccellenza, veniamo alle note dolenti.
Menu a 260 Euro e percorso di abbinamento al bicchiere a 140 Euro.
Chi scrive trova ozioso ricordare che siamo in un monostellato e che il prezzo medio dei pari grado è inferiore, perché il prestigio del luogo e la fama dello chef giustificano il prezzo.
Tuttavia, il ristorante Carignano resta un’esperienza di nicchia: per gli appassionati e i nostalgici del periodo Combaliano, per coloro i quali sono legati a una determinata epoca della cucina italiana, per i più giovani, a patto che siano molto, molto curiosi di scoprire la cucina del tutto singolare di uno chef che ha scritto pagine di storia.
Attenzione a questi naviganti: non troverete urli, strepiti, montagne russe, scoppi in bocca, maiali che volano. Troverete una grandissima cucina classica con accostamenti che dovete saper cogliere e che coglierete soltanto se in vita vostra avete molto assaggiato, provato, mangiato. La cucina contemporanea si muove in altra direzione rispetto al percorso indicato da Scabin, per cui l’accesso a questo tempio sabaudo deve essere meditato e compreso.
Si debbono astenere gli amanti della fuffa e delle stravaganze contemporanee dei bei giovanotti tatuati.
N.B: Per chi scrive, comunque, è stata una delle cene dell’anno!
Ristorante Carignano a Torino
Via Carlo Alberto 35
Aperto la sera
Chiuso domenica e lunedì
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