di Virginia Di Falco
La trattoria Dar Moschino si trova nella parte alta della Garbatella, in uno dei suoi palazzi più caratteristici, in una piazza che il verde pubblico non è riuscito purtroppo a difendere completamente da parcheggi e cemento.
La sala interna come altre mille a Roma, da trattoria di tutti i giorni, quasi un bujaccaro, qui da quasi quarant’anni. Senza pretesa alcuna, con gli habitué del pranzo che siedono per una chiacchera con la proprietaria, accanto al banco del prosciutto. Quello tagliato a mano per gli antipasti. Sempre quello. Proprio come la frittatona alle zucchine sulla madia all’ingresso, in attesa di essere servita in porzioni generosissime. Che è poi il vero benvenuto del Moschino, soprannome dato a Franco Perugini, oste appassionato di ippica, come ricordano i tanti quadri di corse e cavalli alle pareti.
Per il resto, solite doghe di legno a metà parete, tovaglie di carta, menu plastificati, i cestini di pane in acciaio, proprio come negli anni Settanta. E dentro una rosetta a testa, proprio come nelle mense. Il servizio è cordiale ma, soprattutto, è come te lo aspetti: divisa bianconera d’ordinanza, battuta pronta ma sempre cortese. Con il cameriere che per tutto il tempo ti fa pensare: in quale commedia all’italiana l’ho già visto. Anche perchè, in sala, parlano davvero come Carlo Verdone.
Ma il bello, dal Moschino, è che non c’è affettazione, finzione, nè folklore pacchiano. A ricordare, insomma, che non servono aglio e peperoncini finti alle pareti per far capire che si è in una autentica trattoria di quartiere. Ed infatti, non a caso, nel 1998 piacque tanto a Stefano Bonilli, che ne scrisse nella sua rubrica Gambero Rosso sul Corriere della Sera.
Anche Slow Food l’ha avuta nella Guida delle Osterie per diverse edizioni. Poi ad un certo punto il calo drastico. Anche di attenzione. Per qualità complessiva dell’offerta, sostenevano in molti. E, forse, anche perché in questo come in casi analoghi, l’entusiasmo di una certa stampa verso la declinazione gastronomica della cultura popolare si è perso quasi del tutto nel decennio successivo, per concentrarsi su altre cucine. E su altre storie.
L’impressione generale, mangiando a pranzo dal Moschino, è che qui in cucina le cose non siano poi cambiate così tanto. Certo, anche a causa della crisi, c’è stato un ridimensionamento di spesa e menu: ad esempio i primi piatti (tutti a 8 euro) sono quasi sempre solo rigatoni: alla gricia, all’amatriciana o alla carbonara.
I secondi piatti (che vanno da 8 a 13 euro) sono invece i classici della cucina romanesca al completo, dalla trippa agli involtini, dallo spezzatino con i piselli al coniglio alla cacciatora, e così via. Accompagnati da cicoria ripassata, carciofi, insalata di rucola e pomodorini. Ma la gricia e la carbonara sono ben mantecate, pecorino e guanciale sono di qualità discreta; le polpette di bollito hanno una crosticina forse un po’ debole, ma sono tenere e nel complesso restano il piatto da non perdere.
Le patate al forno sono saporite e non sono prosciugate fino alla secchezza, come purtroppo spesso succede. Infine, la melanzana ripiena di vitella, sostanziosa ma delicata, è una valida alternativa come secondo piatto. In tutti i piatti provati colpisce la giusta misura nell’uso del sale, anche questa una rarità nelle osterie più ruspanti.
Sul vino non vi infilate in una (quasi inutile) caccia all’etichetta: nel menu sono riportate alcune IGT del Lazio, tutte senza produttori. Meglio optare per il Frascati della casa.
Si chiude con una crostata di visciole e con un conto adeguato all’offerta, tra i 25 e i 30 euro. Niente di più, ma anche niente di meno, di quello che ci si aspetta da una trattoria di quartiere salendo quassù. Quindi, va bene così.
Piazza Brin, 5 (Garbatella)
Tel. 06. 5139473
Aperto a pranzo e a cena
Chiuso domenica
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