di Raffaele Mosca
Dopo i bianchi, passiamo ai rossi di Sicilia En Primeur, che ci hanno offerto un panorama ancora più vario.
Anche in questo caso l’Etna gioca un campionato a parte rispetto a tutti gli altri, oramai nella cerchia dei territori più quotati in assoluto a livello nazionale ed internazionale. Un successo che getta le radici non solo nelle caratteristiche uniche de “A’ Muntagna”, ma anche e soprattutto nella genetica dei vitigni alla base: Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio sono, insieme al Gaglioppo calabrese, i discendenti meridionali del Sangiovese.
A ribadirlo è il Doctor Wine Daniele Cernilli in una masterclass tenuta in coppia con Gabriele Gorelli a distanza di pochi di giorni da Sicilia En Primeur, in occasione dell’evento Beviamoci Sud a Roma. Una rivelazione che spiega l’arcano dietro il colore scarico, trasparente – in pieno stile Sangiovese, per l’appunto – e la tendenza e sviluppare acidità e tannini in abbondanza. Tutte caratteristiche singolari per un vitigno del Sud Italia, rafforzate dal clima etneo, l’unico propriamente continentale di tutta l’isola.
L’ Etna Rosso vive un momento d’impressionante espansione, foraggiato anche alle contrade, uno strumento d’identificazione territoriale che può essere la base per una classificazione alla maniera delle M.g.a. di Barolo e Barbaresco. Un exploit dal quale la Sicilia tutta trae beneficio – con riflettori puntati e investimenti anche ingenti da parte di imprenditori di fuori regione – ma attenzione a non scambiare per oro tutto ciò che luccica. Come sempre, le crescite dirompenti possono portare a degli squilibri. A lanciare l’allarme su questo punto, nel corso del tour etneo di Sicilia En Primeur, è Salvino Benanti, che spiega: “ tutti adesso vogliono avere una vigna sull’Etna e fare un vino di contrada. Il numero di referenze disponibili sul mercato cresce in maniera consistente di anno in anno. Il problema è che molti cominciano a produrre senza avere una rete di distribuzione, un importatore, una minima garanzia di riuscire a vendere il loro vino. Tutto questo può rendere il sistema fragile. Dubito francamente che alcune aziende riusciranno a stare in piedi nel lungo termine”.
La sua previsione sul futuro dell’Etna Rosso è alquanto drastica: dopo un picco, ci sarà, a suo dire, una progressiva decrescita del numero di produttori, fino ad arrivare ad avere solo un manipolo di realtà più solide e commercialmente più sviluppate, che assorbiranno produzione e vigneti di chi non è riuscito a stare a galla. Un’ipotesi un po’ pessimistica: la mia sull’argomento è che questo spirito garagista rimarrà, perché ben s’addice ad un territorio dove tutto cambia nell’arco di pochi metri (e vini da parcelle vicine hanno profili radicalmente differenti). Chi ha saputo ritagliarsi una nicchia di mercato andrà avanti anche a fronte di produzioni molto esigue. Di certo, però, ci sarà un assestamento.
L’altro vitigno che s’inserisce sullo stesso tracciato di quelli etnei – anche se con un successo meno plateale – è Il Frappato, anche questo parente dei Nerelli e quindi del Sangiovese. Qui la genetica compie un vero e proprio miracolo, perché la zona di Vittoria nel sud-ovest dell’isola è calda, arida, ma il Frappato riesce a mantenere comunque freschezza e integrità di frutto. In solitario dà vita a rossi delicati, leggeri, da bere freschi con tonno e pesce spada, mentre nel blend dell’unico vino DOCG di Sicilia, il Cerasuolo di Vittoria, apporta una fragranza, una delicatezza aromatica che da solo il Nero d’Avola faticherebbe ad avere. Onestamente a Sicilia En Primeur non erano presenti abbastanza Frappato o Cerasuolo di Vittoria in degustazione per farsi dello stato delle due denominazioni, ma la sensazione generale è che siano di media vini contemporanei, sfiziosi, di grande equilibrio, di cui si sentirà parlare di più negli anni a venire.
Dopodiché, ci sono i rossi siciliani più “classici”, ambasciatori di una mediterraneità più canonica, ma non per forza stereotipata. Il Nero d’Avola porta la bandiera nella categoria: vino alfiere del rinascimento siciliano negli anni 90’, originario della Val di Noto, ma piantato pressapoco ovunque nell’Isola, paga adesso la scotto di produzioni non proprio esaltanti sulla fascia bassa e medio-bassa, oltre che di etichette ambiziose, ma poco attuali, che puntano molto sulla densità e sul legno a tutti i costi, quasi a volerlo avvicinare a certi vini da vitigni internazionali (con i quali, però, non condivide la tendenza all’equilibrio). Lo stesso si può dire del Perricone, anche detto Pignatello, vitigno del trapanese tornato in auge dopo un lungo periodo d’oblio, anche questo alla base di vini molto – in certi casi troppo – diversi tra loro e alle volte un po’ troppo rustici. Un vero peccato, perché le migliori interpretazioni di entrambe le varietà sono si solari, si avvolgenti, ma capaci di mantenere un certo equilibrio anche in contesti ed annate torride.
Poi c’è il filone dei vini da vitigni internazionali, che sembrava il “futuro” della viticoltura siciliana a cavallo tra gli anni 90’ e i primi 2000, quando l’Etna era ancora agli albori della sua rinascita e tutti credevano che, per affermarsi sullo scacchiere internazionale, l’isola dovesse proporsi come un’altra California nel mezzo del Mediterraneo. Vini da Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot continuano ad essere prodotti, soprattutto nelle zone interne e più alte, con risultati che vanno dal sufficiente al molto buono. Sono poche, però, le versioni che riescano davvero a reggere il confronto con i grandi vini d’ispirazione bordolese del centro Italia o del resto del mondo.
Il vitigno globale che dà vini “world class” in Sicilia è il Syrah, ma in questo caso parlare di “alloctono” appare quasi fuorviante, perché è molto probabile che sia arrivato a Marsiglia – e poi nel Rodano – proprio dai porti siciliani. C’è chi sostiene addirittura che Syrah derivi da Syrakousai, il nome greco di Siracusa, e non da Shiraz (che sarebbe una storpiatura successiva). Un’ ipotesi impossibile da confermare, ma che sembra legittimata dalla qualità dei migliori Syrah siciliani, che sono vini varietali al 100% territoriali al 200. Provare Baglio del Cristo del Campobello o Alessandro di Camporeale per farsi un’idea.
Ci sarebbe anche altro di cui parlare: per esempio andrebbero approfondite zone minori come Faro e Mamertino, due DOC del messinese dove si cominciano a fare cose interessanti. Ma come già detto nel precedente articolo, per andare a scovare tutto ciò che interessante c’è in Sicilia e scriverne approfonditamente, bisognerebbe trascorrere mesi – se non anni – sull’isola. Questo è solo un piccolo riassunto per punti salienti.
Ecco i vini rossi più interessanti assaggiati a Sicilia En Primeur:
Zisola – Noto Rosso Doppiozeta 2017
Un Nero d’Avola classico e allo stesso tempo molto equilibrato, prodotto nelle tenuta della famiglia Mazzei, già proprietaria di una storica griffe chiantigiana, in una zona collinare del comune di Noto, non troppo lontano dalle dune della Riserva Naturale di Vendicari. Ha tutta l’esuberanza fruttata tipica del vitigno – visciole sotto spirito, confettura di more – ma senza eccessi di struttura e/o di calore. Anzi, è un vino sfizioso, versatile, salino al limite del salmastro, con tannini morbidi e buona acidità a supporto, spezie ed erbe aromatiche nel finale preciso e variegato. Ben fatto!
Caruso e Minini – Naturalmente Bio Perricone 2020
La parlantina di Stefano Caruso è incredibile: staremmo ore ad ascoltare storie sui suoi vini e sul suo territorio, Marsala, dove insieme alle figlie e al socio Mario Minini conduce un’azienda di dimensioni non trascurabili. Nel line-up presentato all’evento si distingue questo Perricone, interpretazione centrata di un vitigno che, come detto sopra, patisce una sorta di crisi d’identità. Affina solo in acciaio, ma può trarre in inganno e far pensare a un passaggio in legno, perché il naso è tutto giocato sulle spezie e sulle erbe – chiodo di garofano, pepe nero, origano e bacca di ginepro – con fondo fruttato maturo di marasca e prugna. Convince per agilità ed equilibrio tra frutto goloso e rimandi speziati, sapidità che arricchisce il tutto, tannini grintosi – ma ben estratti – e qualche ricordo balsamico a dare finezza. Un rosso da bere anche d’estate, magari a una temperatura un po’ più bassa della norma (sui 14 gradi).
Planeta – Cerasuolo di Vittoria 2020
Il prototipo del vino DOCG di Sicilia: un rosso “de soif”, a metà strada tra Beajoulais ed Etna. Anche questo trascorre tutto il suo affinamento in acciaio e, all’esordio, ha un profumo allegro e invitante, di fragola e pastiglia alla viola, erbe aromatiche, con un sottile sottofondo di oliva nera e pasta d’ acciughe. La latitudine si fa sentire nella solarità del frutto, che, però, è bilanciata da un’acidità vivace, ma matura, che ricorda il tarocco siciliano. Rintocchi di cappero in salamoia e cenni floreali completano il finale sfizioso, gourmand, che chiama l’abbinamento con tagliata di tonno, maccheroni alla norma, parmigiana di melanzane e via discorrendo!
Torre Mora – Etna Rosso Scalunera 2019
L’azienda etnea di Piccini, colosso del vino toscano, produce da vigne in contrada Rovittello di Linguaglossa un Etna Rosso che Gabriele Gorelli definisce giustamente “sangiovesizzante”. Ha un profumo finissimo e croccante, che rimanda a certi Chianti Classico d’altura: rosa canina, fragolina di bosco, felce e alloro, un cenno affumicato e di legni aromatici. Soave, suadente il sorso, che sorprende per pulizia, scorrevolezza, equilibrio, con finale tonico su ritorni di erbe spontanee e arancia sanguinella. La forza dell’Etna risiede non solo nei vini più ambiziosi, ma anche in etichette come questa: più semplici, anche più abbordabili, da stappare senza pensieri e bere d’un soffio.
Terra Costantino – Etna Rosso Contrada Blandano 2017
Dal versante Sud-est della Montagna, il Cru di una famiglia che ha assoldato l’enologo-superstar Luca d’Attoma come consulente. E’ un vino di contrada, prodotto da vigne vista mare intorno alla cantina, e segue un protocollo produttivo molto “nature”: biologico in campo, fermentazione spontanea, nessuna filtrazione. Assaggiato a più riprese nel corso dell’evento, ha svelato ogni volta qualche dettaglio in più, pur mantenendo sempre un’anima gentile, messa in chiaro da aromi di fruttini rossi aciduli, erbe officinali, violetta qualcosa di più scuro e terragno sul fondo. La bocca ricorda quella di un buon Barbaresco: tannica ed ematica al centro bocca, poi più aggraziata nei rimandi all’arancia rossa e ai fiori. Ma soprattutto cangiante, variegata, mai noiosa, anzi sempre più sfaccettata.
Planeta – Menfi Didacus Rosso 2017
La famiglia Planeta ha pensato bene di ricavare il suo vino di punta dal vitigno bordolese più in voga negli ultimi anni: il Cabernet Franc, piantato in zona Menfi (Agrigento) e vinificato a grappolo intero direttamente in barrique e tonneaux. Un bell’ esperimento enologico che intriga chi, come il sottoscritto, è un amante del Franc. Didacus ha un profumo dirompente di fiori rossi e susina matura, carcadè e tè nero, erbe officinali e grafite. E’ mediterraneo, carico di frutto e allo stesso tempo agile, con tannini cesellati e il cenno vegetale tipico del Franc che rinfresca il finale lungo e suadente. Un vino assolutamente singolare, forse difficile da inquadrare in una degustazione alla cieca, proprio perché esce fuori dal solito tracciato dei vini siciliani da uve bordolesi.
Alessandro di Camporeale – MRNL Syrah Vigna di Mandranova 2017
Un’azienda che è sinonimo di grande Syrah: il Kaid è un grande classico e il Kaid Vendemmia Tardiva forse il miglior vino dolce prodotto da questa varietà al mondo. Ma, oltre alle due etichette storiche, la famiglia Alessandro propone anche un cru da singola vigna a Monreale, con esposizione nord-est, che offre un profilo di rara finezza, con note balsamiche in apertura, e poi noce moscata e pepe rosa, cacao in polvere, erbe disidratate e accenti fumè quasi in stile Crozes-Hermitage. E’ coerente al sorso, fitto nella trama tannica e riccamente speziato nei rimandi retro-olfattivi, con finale arricchito da ritorni piccanti che conferiscono ampiezza all’allungo. Semplicemente splendido.
Baglio del Cristo di Campobello – Lusirà 2019
Molto diverso dal precedente: qui siamo a Licata, nell’agrigentino, e questo Syrah da vigne a 230-270 metri sul mare porta in dote il calore, l’abbondanza di quelle terre, con profumi di prugna e cioccolato fondente, liquirizia e mentolo, più vicini all’Australia migliore – non a quella dei vini-marmellata! – che al Rodano. Ha un sorso largo, cremoso, ma con discreto piglio acido di fondo e salinità evidente, rimandi di spezie dolci e tostatura che arricchiscono la lunga chiusura. Da abbinare adesso a una costata di manzo o uno stracotto e, tra qualche anno, a un piacentinu ennese o un ragusano quattrofacce.
Duca di Salaparuta – Duca Enrico 2016
Su questo vino ha messo mano un certo piemontese naturalizzato che faceva vini non malvagi su in Toscana. Se non erro, si chiamava Giacomo Tachis. Scherzi a parte, Tachis, nei primi anni 80’, scese giù nei Feudi di Butera (Caltanissetta) e concepì uno dei primi vini che hanno fatto capire al mondo il potenziale vitivinicolo dell’isola. Oggi quel vino è ancor un must: degustato alla cieca, nelle sale del centro San Domenico di Erice, tira fuori un profluvio ipnotico di cioccolato fondente e composta di more, nocciola tostata e tabacco mentolato, qualche refolo di spezie dolci ed eucalipto. E’ morbido e voluminoso, ma senza sfoggi di muscoli; il frutto sempre ricco, avvolgente, cremoso è calibrato dalla giusta acidità e da tannini di puro velluto. Il finale vede protagonisti ritorni insistenti di liquirizia, mentolo e rosa rossa. In parole semplici: il Nero d’Avola che vogliamo!
Graci – Etna Rosso Arcuria Sopra Il Pozzo
Una bomba atomica di Alberto Aiello Graci, uno dei migliori produttori dell’Etna e della Sicilia tutta, servita da sua moglie – in dolce attesa! – al banchetto nel chiostro di San Francesco. Pochi tonneaux ricavati da una parcella singola nel Cru Arcuria, per un totale di qualche migliaio di bottiglie. Ne assaggiamo tre versioni da tre annate: una 2016 sottile, con profumi balsamici e di spezie orientali quasi in stile Pinot Noir, e un sorso piccante e salato, longilineo e infiltrante; una 2017 clamorosa, ugualmente fine nei profumi, ma con un tannino appena più mordente, poi arancia sanguinella e sandalo nel finale soave e allo stesso tempo profondo; e, per chiudere, una 2015 che comincia a tirar fuori cenni affumicati, boschivi e di garriga, con un sorso più ampio e cremoso, ma sempre tonico, reattivo, con finale lunghissimo su toni di spezie ed erbe disidratate.
Benanti – Etna Rosso Serra della Contessa Particella No. 587 2018
L’equivalente del Duca Enrico per l’Etna: uno dei primi “fine wines” del “Mungibeddu”, prodotto a partire dalla metà degli anni 90’ e così chiamato perché ricavato dalla parcella apicale del Monte Serra, cono vulcanico che svetta sulla villa di famiglia nella periferia di Viagrande, versante Sud-est del vulcano. Un vino di delicatezza e trasparenza invidiabili, comparabile a un grande Sangiovese di zona fresca o, perché no, ad un buon Barolo. Dispensa profumi inebrianti di ciliegia e fragolina di bosco, rosa rossa, cipria, liquirizia, spezie d’ogni genere. Stupisce per finezza e precisione, con una progressione all’insegna dell’equilibrio e dell’integrazione di tutte le parti, con finale che spazia dal tarocco siciliano alla noce moscata, dai mirtilli rossi alle erbe aromatiche. Un fuoriclasse!
Pietradolce – Etna Rosso Vigna Barbagalli 2017
Vigne di 80-100 anni a 950 metri sul mare, fermentazione spontanea in vasche di cemento, 20 mesi di affinamento in tonneaux di rovere. E’ la ricetta apparentemente semplice del vino più clamoroso di Sicilia En Primeur: potenzialmente un fine wine ai livelli dei grandi di Toscana e Piemonte. Non è un vino di naso in questo momento: sta sulle sue e lascia affiorare poco a poco ricordi di cenere e sottobosco, eucalipto, caffè in polvere, e poi il frutto molto fresco e molto scuro. Ma la bocca è portentosa: potente senza essere imponente, plasmata dalla spinta minerale che dà vigore e tridimensionalità ad una progressione in cui tutte le componenti sono al loro posto. Magnifico il finale in chiaroscuro, tra ritorni fruttati, accenni floreali e una vena di esotica – di spezie orientali – che rimanda subito al vulcano. Veramente eccezionale!
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