Dal folklore a regione leader del Sud: per una storia dei vini della Campania

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In origine erano Mastroberardino in Irpinia, Moio a Mondragone e D’Ambra a Ischia. Circondati da vinificatori che compravano uve in tutto il Sud per dissetare Napoli e da migliaia di produttori che si bevevano beato il loro vinaccio autoprodotto vantandone la genuinità.

Sembra incredibile, ma appena vent’anni fa i vini campani erano totalmente inesistenti nell’immaginario collettivo italiano, addirittura si pensava che al Sud non potesse essere possibile fare vini di qualità mentre i bianchi erano relegati nel folklore delle brocche delle trattorie di mare consumati nel giro di pochi mesi.
Oggi la regione è immediatamente alle spalle di Piemonte, Veneto e Toscana per il peso specifico nella critica enologica nazionale e internazionale, le aziende sono passate da una trentina a oltre 400, il paesaggio rurale è completamente cambiato e la vite resta la migliore sentinella contro l’aggressione del cemento non solo in Cilento, in Irpinia e nel Sannio, ma anche nella stessa città di Napoli.
Questa rivoluzione è stata fatta dai privati, dalle aziende e dagli uomini che hanno creduto nella viticoltura e che, a differenza dell’industria che ha lasciato cattedrali inquinanti sparse nelle aree un tempo incontaminate, non ha avuto finanziamenti statali. Anzi, spesso la burocrazia è ben più dannosa di una grandinata per chi si impegna a lavorare la terra. Ogni cantina è sottoposta ad oltre 30 controlli.

È dunque un settore che cammina con le proprie gambe, respira aria positiva e ottimismo, si è svecchiato con l’ingresso di giovani e si è ingentilito grazie al peso crescente delle donne. È finito il tempo in cui la Campania era rappresentata a Verona in un padiglione di 400 metri quadri occupato dalle aziende del limoncello.

Il primo passo viene fatto da Silvia Imparato a Montevetrano, nella sua tenuta di campagna a ridosso di Salerno, dove con l’aiuto di un gruppo di amici, tra cui l’enologo Riccardo Cotarella, riesce a creare un vino leggendario, ancora oggi ricercato in tutto il mondo, a base di cabernet sauvignon, merlot e una punta di aglianico. Era il 1992. Il Montevetrano ha dimostrato una cosa oggi lapalissiana: in Campania e al Sud è possibile fare grandi vini rossi.

Ma la fortuna della regione è stato l’impulso bianchista dovuto a due filoni. Il primo vede protagonisti Leonardo Mustilli, Angelo Pizzi, Francesco Martusciello e altri esperti appassionati che ripescarono la Falanghina e la iniziarono a vinificare. Nell’arco di due o tre stagioni questo bianco, venduto a buon prezzo, cacciò dagli scaffali di trattorie, pizzerie e ristoranti i bianchi veneti che all’epoca dominavano il mercato imponendosi al consumo.

Un grande contributo venne anche dalla Cantina del Taburno e dalla nascita dell’azienda Grotta del Sole della famiglia Martusciello che salvarono, rispettivamente, l’Aglianico del Taburno e la Coda di Volpe la prima, la Falanghina, il Piedirosso, il Gragnano e l’Asprinio la seconda. Ancora oggi possiamo affermare che se la viticoltura ha preso la giusta direzione nelle province di Benevento e Napoli è stato grazie a questo impulso iniziale molto forte e poi all’esempio di viticoltori come Venditti, Ciabrelli e Ocone nel Beneventano.

Il secondo grande filone bianchista è l’Irpinia dove la produzione di Fiano e Greco registra un numero sempre crescente di protagonisti: oltre la Mastroberardino, Terredora nata dalla separazione tra Walter e Antonio, la Feudi di San Gregorio, Clelia Romano, Benito Ferrara, Vadiaperti. Basti pensare che in questo arco di tempo siamo passati dalle 12 aziende presenti nel 1990 alle attuali 160 solo in Irpinia.

 

L’Irpinia ha in questa fase tolto la leadership a Benevento anche grazie a personaggi che hanno portato la Campania in tutto il mondo.

Nel 1994 Luigi Moio torna da Bordeaux e inserisce per primo l’uso della barrique da Caggiano e poi dai Feudi, contemporaneamente Enzo Ercolino si afferma come grande comunicatore del vino campano facendo conoscere ovunque Fiano, Greco, Falanghina e imponendoli sui mercati di Roma, Milano e negli Stati Uniti. Su questa spinta emergono Salvatore Molettieri e Antonio Caggiano, capaci di esprimere non solo il vino, ma anche il territorio di Taurasi. Caggiano in particolare costruisce una cantina per l’accoglienza.

Questa frettolosa panoramica non sarebbe completa se non raccontassimo ancora del ruolo svolto dalla famiglia de Conciliis e da Luigi Maffini nel Cilento, dove un intero territorio è stato recuperato all’attenzione mediatica grazie al ruolo svolto da Bruno e da Luigi. E, ancora, dal peso giocato da Francesco Paolo Avallone e poi dai figli Tani e Ida con Villa Matilde nel Casertano nella tutela del Falerno.

Proprio il Casertano ha riservato dolori e nuove gioie. Da un lato l’Asprinio come unico caso, sinora di insuccesso in un panorama così ricco di biodiversità. Dall’altro l’affermazione del Terra di Lavoro di Fontana Galardi che ha fatto quasi da contraltare al Montevetrano nell’area Nord sempre con Cotarella protagonista. E, infine, la riscoperta dei vitigni Pallagrello Nero, Pallagrello Bianco e Casavecchia a opera di Peppe Mancini e Manuela Piancastelli.
Ma qui, ormai, siamo passati dalla storia alla cronaca, perché parliamo della fine dei fantastici anni ’90 e l’arrivo nel decennio difficile del vino italiano di una Campania ricca di protagonisti, biodiversità, tipicità (la igt è l’unica in Italia non prevedere vitigni internazionali in etichetta), varietà di offerta e buon rapporto tra qualità e prezzo.
E il sogno continua grazie ai giovani enologi, imprenditori e comunicatori che si stanno affacciando sulla scena.

Articolo pubblicato sul Mattino del 7 aprile 2011 nelle pagine dedicate al Vinitaly


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