Come è già stato rilevato da Fanpage e ribadito in decine di post su TikTok, purtroppo alcuni molto e inutilmente offensivi, Gino Sorbillo ha perso la partita con Briatore nel confronto con Vespa.
Il re dei social della pizza napoletana è apparso teso, forse hanno pesato le continue raccomandazioni fatte da Vespa nel backstage di non calcare eccessivamente la polemica ma di stilare una sorta di pace fra chi fa impresa. Non solo, purtroppo Sorbillo ha fatto un marchiano errore di comunicazione quando è intervenuto l’ultima volta rivolgendosi a Briatore con le perifrasi “Con tutto il rispetto”, “dottore” (in realtà pare sia geometra) e aggiungendo che nelle pizze a 5 euro “non ci sono cattivi prodotti” giocando così in difesa sul negativo e dimostrando di aver accusato il colpo delle accuse contenute nel video di Briatore.
Con il passare degli anni la verve che lo ha contraddistinto, l’aria da scugnizzo con cui si è imposto nel 2008-2009 si è progressivamente spenta a favore sicuramente di una certa maturità ma a sfavore dell’efficacia: le scritte sulle pizze potevano essere divertenti dieci, quindici anni fa, ma adesso hanno stancato e giustamente molti nel settore rilevano che forse ci sono modi più complessi e meno primitivi per esprimersi. L’adunata in pizzeria con le pizze gratis contro Briatore sicuramente sono servite per portarlo da Vespa, ma non bastano più nel confronto e nel ragionamento.
Briatore, molto più a suo agio, pur non conoscendo nulla di pizza, penso in generale di cibo, ha assestato due o tre colpi in tranquillità concludendo con la cazzata più incredibile, che non si poteva sentire: non esiste un brand della pizza nel mondo.
A ben vedere, da un lato c’erano trecento anni di storia di un brand riconosciuto dall’Unesco, dall’altro un imprenditore piemontese che ha deciso di cavalcare questo brand per fare affari.
Perchè il brand pizza esiste già, e si chiama Napoli. Dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Inghilterra a Dubai, un pizza deve chiamarsi Napoli o avere riferimenti alla città per essere credibile nel senso comune dei ocnsumatori. Si chiama brand di territorio.
In Italia ne abbiamo diversi: quanti consumatori sanno citare un solo caseificio produttore di Parmigiano? O produttore di Brunello di Montalcino? O di cannoli siciliani? Nella sua diversità, e nel suo iperlocalismo, come ha notato Nathan Myhrvold nel suo Modernist pizza l’Italia ha numerosi marchi di territorio che la globalizzazione, nel suo andare veloce comunicativamente, ha esaltato.
Nel nostro lavoro in 50 TopPizza su scala mondiale, non possiamo non rilevare che le catene artigianali italiane ed estere, ad eccezione di Berbere’, sono quasi tutte napoletane di stile, che il numero di pizzerie artigianali aperte ovunque in Italia e all’estero sono quasi esclusivamente napoletane e che lo stesso vale per l’Europa, il Giappone, l’Australia, gli Stati Uniti.
Ed era questo che bisognava rispondere a Briatore, il brand c’è, ed è Napoli. Stava per dirlo Veccia, ma Vespa l’ha stoppato preoccupato di non chiudre in polemica visto che l’inserto pizza è stato un momento di relax rispetto ai casini italiani e alla guerra.
Fondi d’investimento internazionali hanno fatto shopping di catene di pizza napoletane come Rossopomodoro e Pizzium perchè sanno, a differenza di Briatore, che proprio grazie al brand Napoli è poi possibile costruire una impresa che faccia profitti commerciali.
Vespa è un grande professionista, sa come far girare le cose in tv, sa che deve dare quello che il pubblico si aspetta su certi argomenti. Ma ormai il mondo della pizza è talmente cambiato che probabilmente gli interlocutori di un dibattito con Briatore avrebbero dovuti essere Franco Manna di Rossopomodo e Alessandro Condurro di Michele on the world, oppure lo stesso Gino nella sua vera nuova veste: imprenditore di successo capace di trasformare in oro ogni apertura nel mondo.
Amiamo Pulcinella, è l’anima pop di una città che ha sofferto tanto nel ‘900 dopo essere stata grandissima per tre secoli. Ma forse non è più sufficiente per capire quello che sta succedendo a Napoli e nel mondo pizza.
Ci sono poi le discussioni, ma giusto a latere, sul fatto che il gusto della pizza napoletano non sia maggioritario e che piaccia solo ai napoletani. Se quest’altra stronzata fosse vera, Apn e Avpn non conterebbero oltre 1500 soci sparsi in tutto il mondo. Il punto è cogliere una tendenza, non fare i tifosi. Al contrario, è vero proprio che il gusto napoletano, nelle sue varie declinazioni, che partono da un impasto scioglievole dopo la cottura, sta conoscendo una espansione senza precedenti da dieci anni a questa parte. Non a caso non c’è pizzaiolo napoletano che non abbia aperto a Roma, Firenze, Bologna, Torino, Milano. E pensiamo anche alla espansione delle fritture, prima sconosciute ai non napoletani.
Non è una questione di campanilismo: il fatto è che pizza napoletana è sinonimo di artigianalità, l’unica possibile contro l’impero dell’omologazione delle catene industriali. E sapete perché? Perchè richiede manualità specializzata più di ogni altra, dalla gestione dell’impasto alla cottura in forno.
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