di Michela Guadagno
Grande serata a Pozzuoli
Maurizio De Simone, archeo-enologo giovane e bello – la definizione è di Giulia Cannada Bartoli, così lo introduce nel promo della serata “A cena con l’enologo” all’Osteria Abraxas di Nando Salemme – parla di vino con la passione di chi ama il proprio lavoro. Ascolto le sue parole con attenzione, racconta i vini delle aziende che segue con l’interesse di chi percorre strade e viottoli e terreni scoscesi alla ricerca dell’antico e del nuovo al tempo stesso. Non ha freni Maurizio mentre lo sento parlare con Nando della pietra torcia usata dai contadini di Ponza, quando arrivo di soppiatto nel giardino sul lago del ristorante, li sorprendo all’improvvisio scattando una foto, è la prima impressione di una lunga calda e piacevole serata.
Pro.vit.e. è il nome del progetto di Maurizio dalla Toscana all’Etna, per la produzione di vini atipici, che rispecchiano la filosofia di un enologo che ha una visione del vino particolare, e illustra i suoi tesori che sposano la sua filosofia: il Brunello recuperato da piante espiantate da altre aziende e reimpiantate, l’Agostinella del Sannio, vitigni antichi siciliani senza ancora classificazione: “vini miei, filosofia da pazzi” seguita dai produttori che credono in questa stessa filosofia.
L’Origine, come Maurizio traduce il francese terroir, quel mix di territorio, vitigno, terreno e microclima e conoscenze umane, che fa di ogni vino una storia a sè e che influenza quello che nel bicchiere andiamo a ritrovare. Vini da non intervento, coadiuvato in ciò dalla collaborazione di Gianluca Tommaselli e Andrea Marletta, vini dal sapore antico, ricordano il vino che si beveva da ragazzi. Per poter non intervenire, però, il vino bisogna conoscerlo a fondo.
Si parte in questo percorso istruttivo con le immagini eloquenti dell’Asprinio di Aversa, piante nella loro forma ad alberata che si stanno lasciando estinguere, antiche dai 350 ai 500 anni, un sistema di allevamento unico al mondo, con una collocazione specifica e fortemente espressivo del territorio, uva difficile da lavorare e da abbinare. Le piante di dimensioni altissime, lavorate da contadini più che artisti-giocolieri ad arrampicarsi su per la scala, vero e proprio mezzo tecnologico, il piolo superiore è arcuato in modo da riuscire ad incastrare piede e ginocchio e poter lavorare a mani libere.
Ogni contadino ha la sua di forma e dimensione diverse a seconda della propria fisionomia corporea; e la fescina, secchio di paglia per la vendemmia con la sua forma a cono, di modo che la cesta viene fatta scivolare giù dalla scala e si va a conficcare nel terreno senza perdere nulla del carico di uva raccolto. L’Alberata esiste fin dai tempi dei re Borboni: i terreni distribuiti alle famiglie per autosostentamento, ad altezza d’uomo i campi di alberi da frutto, e lungo i canali di scolo delle acque piovane veniva impiantata la vite maritata a pioppo, anche come difesa militare, formando un reticolo labirinto impenetrabile da un esercito per le imboscate.
Punta Fieno a Ponza, storia fascinosa della passione di un medico odontoiatra di Napoli, Emanuele Vittorio, che eredita dal nonno una striscia di terra, ci si arriva attraverso 40 minuti di mulattiera impervia classificata come trekking classe A.
Nessun mezzo meccanico può giungere fin lì, e a convincere i contadini a non abbandonare la terra di queste che sono vigne estreme, bisogna avere del coraggio. Si vede nelle slides il cunicolo che introduce alla cantina, presidio di “zio Aniello” vecchio contadino di 84 anni, dove è ancora utilizzata la pietra torcia, sistema di torchiatura degli antichi romani, che serve a torchiare le vinacce nel palmento dopo averne estratto il primo liquido, la pietra è avvolta da corde a un verricello e con il peso nel corso di ore finisce di torchiare; Giustino e Liberato sono i fautori del recupero, il trasporto di bottiglie avviene necessariamente a dorso di mulo. La visione dal basso delle vigne, terrazzate a parracine, muretti a secco dal sistema a incastro delle pietre, non ci sono alberi nè cespugli, l’unico modo per sostenere la vite è sfruttando i rami di ginestra, tagliati essiccati e usati come pali di sostegno; dietro si intravede Palmarola, a completare un disegno che lascia senza fiato.
Altro ambiente, Olevano Romano, a 500 metri di altitudine, il Cesanese è l’unico vitigno autoctono rosso laziale. Quello di Olevano non è tanto famoso quanto la stessa uva del Piglio e di Affile. Anche qui, non è usata tecnologia, le viti sono coltivate con il sistema a conocchia, alberello romano che in un terreno così fertile non sostiene il fusto, e allora l’esigenza di comporre intrecci con le canne per sostenere la pianta. L’obiettivo è di conservare i sistemi di allevamento patrimonio del tutto italiano, a dare identità che non esiste in altre parti del mondo, e produce vini sconcertanti.
La cena interrompe le disquisizioni colte, ma ne avremo modo di riparlarne: pomodori cannellini dei Campi Flegrei dall’orto di papà – dice Nando – e cacioricotta di capra su cui viene servito l’asprinio fermo Vite Maritata de I Borboni; insalata di patate, stracciata di melenzane, bignè con ricotta e peperoni verdi, la ben nota ormai pizza Pagliuca con la pasta del pane a canestrella, si beve con il Lentisco, Lazio igt Bellone fermentato in botti di castagno di Terra delle Ginestre; mezzanelli al pesto di rucola e fagiolini, pinoli mandorle patate con grattata di Provolone del Monaco abbinati al Grecomusc’ di Contrade di Taurasi e poi in rapida successione il Fieno bianco da biancolella di Cantine Migliaccio, l’Agostinella di Vigne Sannite, il pallagrello Riccio bianco di Alepa; involtini di carne marchigiana ripieni di peperoni verdi e provolone, e patate al forno secondo la ricetta Abraxas, con il cesanese Attis di Compagnia di Ermes, Brunello di Montalcino di Piombaia e Taurasi riserva di Lonardo, alè; per dessert sfogliata di mandorle – frantumatelo e provatelo così – con passito Pietra Focaia dell’Etna Rocca d’Api.
Riprendiamo il discorso sui vini esposti in bella mostra su un unico tavolo per panorama regionale: Il Lazio: Lentisco, il Bellone di Terre delle Ginestre; Attis, il Cesanese di Olevano Romano già detto coltivato a conocchie; la Biancolella usata nel Fieno di Ponza: questa è la produzione nel basso Lazio di Maurizio De Simone, e chi conosce quanta attenzione pongo nei vini laziali, assolverà il mio interesse a questi vini rustici, diversi per la forma di coltivazione e di vinificazione, certo unici per quella particolare filosofia del non intervento che lascia l’Origine, appunto, intatta in un vino che racconta di sè, e per questo sconcertanti all’omologazione del mercato.
La Campania è presente nei vini dei Campi Flegrei – Maurizio nasce e abita a Fuorigrotta, quando non è in giro per vigneti – rappresentata da Uva Rosa di Salvatore Varriale, Vigna del Pino di Agnanum, Brezza Flegrea brut di Cantine del Mare. E poi il Casertano con Vite Maritata I Borboni, Riccio bianco Alepa e Don Peppino Porto di Mola; il Sannio con Agostinella di Vigne Sannite; e l’Irpinia di Lonardo con Grecomusc’ e Taurasi riserva: l’amore di un campano per le sue radici.
La Sicilia dell’Etna in un vitigno ancora non riconosciuto dai registri ufficiali per un vino passito al sole, Pietra Focaia di Rocca d’Api, in nomen omen.
La Toscana: la sfida a Montalcino con vigne “rubate”, racconta lui stesso che con la scusa della legna da ardere chiedeva in giro marze di sangiovese vecchio di anni per impiantarlo e sperimentare quell’archeoenologia dell’antico con risultati moderni, nel Brunello e Sant’Antimo Gatto nero di Piombaia. E poi l’intesa a coltivare fiano e falanghina a Montalcino – pensate un po’ la scommessa – in suoli a base di quarzo in una terra di ricca mineralità.
“I pazzi sono i geni che cambiano il mondo”, questo è il “Maurizio De Simone style”; e che poi sia anche giovane e bello non guasta, affatto.
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