di Raffaele Mosca
Una madre, una figlia, un maestro della sala come Alessandro Pipero, un vino in verticale e altri quattro in orizzontale per raccontare una realtà che ha superato per fama internazionale la propria regione.
Della prima, Angela Velenosi, regina indiscussa del vino del Piceno, si è scritto più o meno tutto: donna del vino par excellence, imprenditrice ostinatissima, non ha mai rinnegato la propria vocazione alla “soddisfazione delle esigenze del consumatore” e, forse proprio questo, è riuscita a costruire una cattedrale in un territorio di serie B. Della seconda, Marianna, bocconiana per formazione, con alle spalle un’esperienza in un colosso del vino francese, non si è ancora parlato molto, ma la sensazione su due piedi è che abbia la grinta, il carisma – e l’umiltà – che occorrono per prendere le redini di un’azienda così importante e traghettarla nel futuro.
I numeri vengono prima della poesia quando ci si interfaccia con un gigante del vino italiano come Velenosi: 160 sono gli ettari di proprietà, ai quali se ne aggiungono altri 100 in affitto; 55 i paesi in cui si smerciano circa 2 milioni e mezzo di bottiglie distribuite su oltre trenta etichette da due regioni. Ogni volta che mi confronto con una realtà del genere mi domando quale divinità abbia sostenuto questa scalata dall’alto dei cieli. Poi, però, ascoltando le testimonianze, mi rendo conto che una grande azienda la costruisci dal basso, con un lavoro durissimo, infaticabile di promozione, la faccia tosta che serve per farti notare dai big, e giusto un pizzico di fortuna. “ Sono partita nel 1984 da una fattoria di nove ettari – ci spiega Angela – andavo in giro per il mondo con sole due etichette, una di Falerio e una di Rosso Piceno, armata di cartina per far comprendere a chi non conosceva la Marche dove si trovava la mia azienda. Ho sempre cercato di capire cosa cercasse il cliente: più che una filosofia vera e propria, quella di Velenosi è sempre stata una filosofia di mercato. Credo che sia stata questa la chiave del nostro successo. Oggi possiamo dire senza timore di smentite di essere una delle aziende più importanti delle Marche e forse di tutta Italia”.
Il festeggiato nella cornice di questa stella capitolina è uno dei vini di punta di una galassia fortemente radicata nel cosiddetto “Marcuzzo”, ovvero il territorio di confine che comprende la provincia di Ascoli Piceno e la parte alta di quella di Teramo. Non si tratta di un classico Rosso Piceno, ma di un Supermarchigiano da assemblaggio di Montepulciano, Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah passato da IGT a DOC in tempi recenti. Il nome è Ludi: “ è un omaggio ai giochi olimpici, sull’etichetta vedete i danzatori di Henri Matisse, figure senza volto che s’intrecciano tenendosi per mano. È un simbolo di connessione.”
“ Mia madre è sempre stata brava a dare i nomi ai vini – ci confessa Marianna – ed é un lavoro difficilissimo, perché è qualcosa che non puoi cambiare in corso d’opera. Deve funzionare da subito.” Lei, così diversa da Angela, meno esuberante, più pacata, ma altrettanto sorridente, ha visto il Ludi trasformarsi e sdoppiarsi negli ultimi anni. “ Siamo entrati nella DOC Offida, che ci è sembrata da subito un bel progetto, ma, per farlo, abbiamo dovuto stravolgere il vino, riducendo la quota di vitigni internazionali per aumentare quella di Montepulciano”. È così che, di fianco, al Ludi “autoctono”, è nato il Ninfa, vino prodotto a partire dal vecchio blend che abbiamo assaggiato in abbinamento con la zolla di manzo leggermente affumicata e acetosella dello chef Ciro Scamardella. “ È un vino concepito per competere sui mercati internazionali – riferisce Marianna – è nato quasi per caso: mia madre ha avuto l’illuminazione nel corso di una degustazione delle varie botti con l’enologo. L’etichetta ritrae proprio il vino che in quell’occasione cadde sul tavolo.” L’impressione resa dal Ludi è perfettamente in linea con questo racconto: dal calice emerge un senso di estrema ricchezza fruttata, speziata e balsamica che dovrebbe renderlo confacente con i gusti dei clienti transoceanici e mitteleuropei.
Con la leggendaria carbonara che “non viene sempre bene, ma sempre bona”, e un defaticante risotto al burro di cipolla e paprika, testiamo quattro annate differenti di Ludi, partendo dal primo millesimo prodotto sotto l’egida del super-winemaker adriatico Romeo Taraborrelli – sostituito in seguito da Katia Gabrielli e poi da Filippo Cardi – e terminando con l’ultima versione in commercio.
La 1998 ci spiazza subito con un bouquet ancora integro: le note di testa sono di miscela arabica, tortino al cioccolato, anisetta e salsa di soia; seguono toni soffusi di frutta secca e pot-pourri. Il sorso è sottile, ma ancora vispo e reattivo, boschivo e balsamico con un finale al sapore di mentolo che fa molto Bordeaux. Il 2002, figlio di un’annata “piccolina” – per non dire sciagurata – offre profumi più cupi e autunnali, di radici e tartufo nero; mantiene un discreto nerbo acido, tannini ancora palpabili, ma ha perso quasi tutto il frutto e chiude piuttosto corto. Il 2010 è solare come tutti i vini dell’annata: profumato di sciroppo di more e prugna, cannella, vaniglia e cioccolato fondente. E’ rotondo, avvolgente, appena in debito di freschezza, ma caloroso e di ottima persistenza. Il 2018 esordisce con ventate speziate – coriandolo, noce moscata, mirto – frammiste a ricordi di rossa e visciolata. Ha bisogno di qualche anno d’affinamento per digerire l’apporto del rovere, ma convince per ampiezza e tensione acido-sapida di fondo che calibra la massa imponente.
Un assaggio di filetto di manzo con crema di cavolfiore e riduzione al gin tonic, e si passa agli altri tre Cru familiari nell’ultima versione in commercio. Reve 2019 è un Pecorino di stampo inequivocabilmente internazionale che guarda ai Sauvignon del nuovo mondo: vegetale all’esordio, con qualche tocco mielato dato dalla fermentazione in barrique di parte della massa e un sorso ben bilanciato tra ricca polpa e acidità sferzante. Roggio del Filare 2018, da blend di Montepulciano e Sangiovese, ricalca il modello di Ludi e Ninfa, con un sorso potente, aromi fortemente speziati e tracce tostate un po’ esuberanti che andranno ad integrarsi nel giro di qualche anno. In ogni caso l’etichetta più sorprendente dell’intera serata – mettendo da parte la ‘98 di Ludi – non proviene dal Piceno, ma da Controguerra, nelle Colline Teramane. È Verso Sera, un Montepulciano d’Abruzzo vinificato in cemento e affinato in botte grande. Stacca tutti gli altri ed esala aromi più rustici, meno accomodanti, di pelliccia e ruggine, sottobosco umido, carne grigliata, mirtilli neri e giuggiole. È il più snello e dinamico degli otto: sontuosamente tannico e sanguigno nel finale di buona profondità.
CONCLUSIONI
I vini di Velenosi possono piacere, non piacere, essere considerati più adatti all’export che al mercato domestico, ma il loro successo è innegabile ed è altrettanto innegabile che il Piceno, territorio ancora poco battuto, abbia bisogno di un brand così forte per esistere sullo scacchiere internazionale. Detto questo, l’incontro con queste due donne del vino è interessante a prescindere da ciò che si trova nel bicchiere. Angela e Marianna riescono nell’intento di non sovrastarsi, anzi si completano, e raccontano il loro lavoro con una schiettezza insolita per un mondo – quello del vino – in cui tutti tendono a riempirsi la bocca di belle parole per sviare l’attenzione dall’obiettivo finale del 99,9% delle imprese, che non è salvare il mondo, ma crescere, affermarsi e fare utili.
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