Le Sirene sugli scogli e gli Elfi tra i boschi di castagno non hanno più motivo di lamentarsi, quell’isterico geniale di Norman Douglas se frequentasse ancora la Piazzetta di Capri non potrebbe più sbraitare contro la bassa qualità del vino dell’Isola: da Capri a Ravello, passando per Sorrento, Furore e Tramonti, le bottiglie sono nuovamente pensate per i viaggiatori, non più per i turisti. Una rinascita lenta ma decisa, così come quasi ovunque è avvenuto in Italia, che coinvolge praticamente tutto il dominio dell’ex Repubblica Marinara di Amalfi dove protagonisti indiscussi sono i vitigni autoctoni e vigneti a piedefranco: oltre all’aglianico e alla falanghina, qui parliamo di piedirosso (per’ e’ palummo), aglianico tintore, sciascinoso, serpentaria, ginestra, fenile, pepella, biancozita, biancotenera, San Nicola, tanto per citare solo quelli catalogati qualche mese fa da Michele Manzo e Antonella Monaco per conto dell’assessorato all’Agricoltura della Regione.
Un lavoro duro, durato alcuni anni e di cui adesso si cominciano a raccogliere i frutti: <La Campania – dice Michele Manzo – ha da sola più varietà di tutta la Francia. Noi ne abbiamo selezionate cento, ma sono molte di più. In questo contesto la Costa d’Amalfi rappresenta, grazie all’isolamento in cui è restata nel corso dei secoli, un vero e proprio museo ampelografico all’aperto e riserva sorprese infinite>.
Ma vediamo allora cosa sta succedendo tra Punta Campanella e Capo Conca, ieri meta ambita di un jet set un po’ superficiale a caccia di finti pescatori, oggi scrigno di bellezze e di golosità: la pasta di Gragnano, i latticini dei Monti Lattari (nomen omen), il provolone del Monaco di Vico, il limoncello e gli infusi, le conserve, i dolci di De Riso a Minori o di Pansa ad Amalfi, la frutta e la verdura, la strepitosa cucina di almeno una ventina di ristoranti ad alto livello guidati da Don Alfonso, agriturismi a picco sul mare oltre a tutto il resto, monumenti, chiese, conventi, alberghi di lusso, di cui si è scritto e si sa tutto.
Forse qui proprio i produttori di vino sono arrivato buoni ultimi, al contrario di quanto è avvenuto nel resto del paese, nel realizzare un radicale processo di riqualificazione buttando a mare le brocche in ceramica con il vino locale inutili ormai nell’affabulare clienti preparati.
Partiamo proprio da Capri, una delle più antiche doc della Campania, voluta nel 1977 dall’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone che dell’isola era frequentatore colto e appassionato. La storia qui è davvero antica, come ha scritto Marino Barendson nel suo <Addio cicerchia, piccola storia della cucina caprese> edito da La Conchiglia nel 1991. Il primo produttore commerciale fu Gennaro Arcucci, medico laureato a Salerno poi commissario bonificatore della Repubblica Partenopea, finito impiccato dai Borbone dopo aver marcito un anno in prigione. La sua avventura laica viene ricordata perché in contrapposizione al Lacryma Christi inventò Le Lacrime di Tiberio, primo serio tentativo di rivalutare l’imperatore la cui unica vera colpa è stata quella di snobbare l’invidia di Tacito. Passa un secolo, esplode il turismo del Gran Tour e nel 1909 il cavaliere Carlo Brunetti fonda, siamo nel 1909, la cantina Isola di Capri nell’ex monastero delle Vergini Teresiane Calzate ad Anacapri, poi ribattezzata con il suo attuale nome, Vinicola Tiberio, oggi condotta dai nipoti Lino, Carlo, Salvatore e Maria Laura. Da un paio di vendemmie l’enologo Roberto Mazzer segue la produzione e la linea tradizionale si è arricchita con nuovi prodotti tra cui segnaliamo il piedirosso Antico Convento San Michele.
Dopo anni di assopimento turistico la bottiglia caprese ritrova dignità e tipicità. L’altra azienda al lavoro nell’isola è La Caprense, una cooperativa che, dopo alcune vicissitudini, sembra aver trovato equilibrio societario e produttivo. L’amministratore Giovanni Colavecchia ha chiamato Angelo De Nardo e lo stallo è stato superato.
Sono queste due aziende che interpretano la viticoltura isolana, da sempre frazionata, estrema e spettacolare: tra rocce e mare le vigne vengono coltivate soprattutto a Migliera, Guardia e Damecuta nel comune di Anacapri, a Villa Jovis, Vervoto, Maruscella e Lo Fuosso nel comune di Capri.
Prendiamo pure l’aliscafo e in 20 minuti siamo a Sorrento dove troviamo la cantina dei fratelli Aniello e Giacchino De Angelis fondata all’inizio del ‘900. Dalla Marina Piccola, dove via mare arrivavano le uve da Capri e dalla Costiera Amalfitana, l’azienda si è trasferita proprio al centro di Sorrento, vicino la stazione della Circumvesuviana. Qui l’enologo Angelo Valentino, primi passi con Luigi Moio da Antonio Caggiano a Taurasi, punta alla qualificazione del Penisola Sorrentina bianco, rosso e rosato, sinora interpretato come un bicchiere di pronta beva. L’azienda è in fase di transizione, ma i titolari non hanno dubbi sul fatto che una fase storica sia definitivamente tramontata.
Con l’auto puntiamo decisi verso Positano, poi ancora a Furore, il paese dai muri dipinti ogni anno dagli artisti chiamati dal sindaco Raffaele Ferraioli, presidente della Comunità Montana e cugino di Andrea, titolare con la moglie Marisa dell’azienda della zona più conosciuta in Italia: la Cuomo. Nata dalla disputa legale consumata al tribunale di Napoli negli anni Trenta per la conquista della dicitura Gran Furor Divina Costiera, la cantina si è rapidamente imposta con alcuni prodotti di eccellenza tra cui ricordiamo senz’altro il Fior d’uva, da vitigni fenile e ginestra, l’unico bianco della Terra delle Sirene fermentato in legno, e il Furore rosso riserva da uve piedirosso e aglianico di cui il cancelliere tedesco Schroeder ha fatto scorta durante la sua ultima vacanza a Positano. Anche qui la viticoltura è estrema, i vigneti, molti a piedefranco, sono ricavati tra gli anfratti delle rocce e impiantati in verticale. Il vento delle gole che ha dato il nome a questo comune senza piazza, Terra Furoris, spazza le vigne: freddo, escursione termica e siccità si ripagano in bottiglia con bianchi eleganti mentre il rosso, grazie alle tecniche moderne sui campi e in cantina, è concentrato, complesso, speziato. Sempre il bicchiere è tipico, irripetibile.
Furore, fichi, capperi, ulivi e pomodorini, è una delle tre sottozone della doc Costa d’Amalfi, la più recente delle tre. Le altre due sono Ravello e Tramonti, un chiaro compromesso politico fra i tre comuni da sempre vocati alla viticoltura.
Ed è nella nobile e snob Ravello che ci dobbiamo spostare per incontrare il maggior numero di aziende, tre, e storie antiche. Come quella di Episcopio, il nome della villa dove abitava Pasquale Palumbo, bisnonno di Marco Vuilleumier, titolare dell’azienda e dell’Hotel Palumbo. La storia commerciale del vino di Ravello, la cui piazza salotto è stata restituità alla civiltà dal sindaco Secondo Amalfitano, inizia poco dopo l’Unità d’Italia quando ai fanatici romantici che salivano sul ciucciariello (l’asinello) da Amalfi veniva versato un bel rosso di corpo, che oggi sicuramente noi giudicheremmo non potabile. In ogni caso i clienti, sempre più ricchi, sempre più aristocratici, si affezionavano a quella spremuta d’uva e tornati a casa, per fissare il ricordo di un amore o semplicemente del mare, chiedevano a Palumbo l’invio di cospicue partite. Così le bottiglie si imbarcavano insieme ai limoni dal vicino porto di Maiori, proprio quest’anno di nuovo in attività grazie al sindaco Stefano Della Pietra che ha sbloccato un impasse durato decenni. Paul Valery, Maurice Rostand, Curzio Malaparte, André Gide, Truman Capote, e poi Badoglio, Togliatti, la principessa Alessandra di Danimarca, Umberto di Savoia, questi ed altri hanno firmato il registro dell’albergo, gelosamente custodito, e provato il vino Episcopio.
Attenzione, per favore. Ravello è proprio il confine che stiamo attraversando tra la tradizione della produzione del bianco e quella del rosso. Non a caso qui, grazie all’azienda Caruso, venne lanciato il rosato, un vino che sia Episcopio che altri produttori hanno mantenuto nonostante sia finito oggi fuori moda. Ma negli spensierati anni Sessanta e ancora nel decennio, successivo, era questo il vino per eccellenza servito agli ospiti dei grandi albergi da Amalfi a Sorrento. Sicché, tornando al discorso del confine tra rosso e bianco, l’enologo Santolo Bonaiuto produce il rosso Episcopio da uve piedirosso e serpentaria capace di sfidare il tempo come quei vecchietti centenari caucasici. Mentre dalla vigna di San Lorenzo, sotto l’omonima chiesa di Scala, il paese delle cento chiese di Fra Gerardo Sasso e di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori che fa da contraltare a Ravello, nasce un cru bianco da uve ginestrella, san Nicola, pepella, biancotenera, biancozita.
Ed è tra bianco e rosso che si divide anche la produzione delle altre due aziende, Cantine Sammarco ed Ettore Sammarco, appaiate all’inizio della salita che, dopo il bivio per Amalfi, si inerpica verso Ravello. La prima produce, ricordando Wagner e la tradizione musicale celebrata ogni anno a Villa Rufolo, il Giardino di Klingsor da uve biancolella e falanghina mentre la seconda oltre al Ravello bianco Vigna Grotta Piana da uva biancotenera, ginestrella e falanghina, ha anche il Ravello Rosso Selva delle Monache da aglianico, piedirosso e sciascinoso.
Ed ora proseguiamo nella Costiera più misteriosa, popolata da Orchi ed Elfi: siamo nel cuore contadino chiamato Tramonti, un comune formato da tredici borgate. La visita ai vitigni della terza sottozona della doc Costa d’Amalfi, intorno al monte Chiunzi,è tra le più singolari e straordinarie che si possano immaginare, come fare un viaggio indietro nel tempo: da oltre cento anni le viti crescono trasformandosi in enormi tronchi, le colline sono tappezzate da questi pergolati ricchi di grappoli utilizzati per favorire al piano del terreno la coltivazione di ortaggi. Esempio di agricoltura a due piani tipica della Terra delle Sirene, per guadagnare spazio in un territorio dove si lotta ogni giorno con la roccia e per trattenere meglio l’umidità. Tutto è rimasto come sempre, i mezzi meccanici non possono accedere tra i ripidi pendii o lavorare sotto le pergole, i sapori del terreno entrano nel vitigno e finiscono nel bicchiere. Così Giuseppe Apicella continua a fare il mestiere del padre, del nonno, del bisnonno anche se poi è diventato contadino-imbottigliatore. Sino alla fine degli anni Settanta i grossisti venivano con i carri dalla vicina Gragnano, dall’Agro-Nocerino o da Napoli per comprare il vino sfuso dai produttori e rivenderlo poi ai ristoratori della capitale. Di questa tradizione, “la tratta”, restano tracce ben visibili all’occhio attento del visitatore: molti clienti affezionati ordinano il vino in anticipo e lo vengono a ritirare poco prima della fine dell’anno. In tal modo i piccoli produttori possono ripagarsi immediatamente delle spese sostenute per la vendemmia a ottobre.
E i numerosi ristoranti aperti proprio sul valico di Chiunzi testimoniano di questa frenetica compravendita dei tempi andati. Il valico è una delle quattro vie di accesso alla Costiera: le altre sono Sorrento, Vietri sul Mare e, appunto, Furore-Agerola. L’idea di mettere il vino in bottiglia, etichettarlo e dargli il nome Tramonti, è stata di proprio di Giuseppe: emigrante in Piemonte, a Biella, come tanti compaesani, osservò che lì i contadini, oltre che sfuso, tendevano a vendere il vino anche in bottiglia riuscendo a guadagnare di più. Siamo negli anni Sessanta, il Piemonte sta preparando, come la Toscana, la sua grande ascesa nel panorama vitivinicolo mondiale. Il primo esperimento Giuseppe lo fa più tardi, nel 1979: appena tremila bottiglie di Tramonti, tutte vendute subito. Attraverso quale rete? Semplice, quella delle migliaia di paesani emigrati nel secondo dopoguerra che nel frattempo avevano aperto pizzerie in tutto il Nord Italia. Da produttori di latticini freschi a pizzaioli il salto è stato abbastanza breve perché uno dei modi di non perdere l’invenduto è da sempre appunto quello di usarlo sulla pizza. Ogni anno a Tramonti c’è il raduno dei suoi tremila pizzaioli sparsi in tutta Italia, molti dei quali hanno fatto fortuna. E così, anno dopo anno, il vino imbottigliato ha superato quello sfuso, soprattutto dopo il conferimento della denominazione di origine controllata Costa d’Amalfi.
Da quest’anno ad Apicella si è affiancato un altro piccolo produttore, Luigi Reale, che ha chiamato Bruno De Conciliis a ripensare l’uva nei suoi due ettari. L’ambizione è fare un vino di alta qualità da servire ai clienti della sua osteria aperta nell’antica frazione di Gete.
Scendiamo per il Valico di Chiunzi verso l’agro Vesuviano, imbocchiamo l’autostrada ad Angri e la lasciamo dopo appena dieci chilometri a Castellammare. Prima di riprendere l’aliscafo per Capri da Sorrento ci fermiamo a Gragnano e Lettere, i due vini rossi per la pizza e il ragù e in genere per tutti i piatti squilibrati e saporiti della tradizione partenopea. Un mito per Napoli come l’Araba Fenice: l’estremo frazionamento della proprietà, parliamo al massimo di un paio di ettari, il decadimento della qualità in bottiglia, ne avevano fatto un oggetto dei desideri, impossibile da trovare in commercio. Bisognava allora affidarsi all’amicizia e alle conoscenze in zona per essere sicuri davvero di mettere il vino giusto nel bicchiere. E’ stata l’azienda Grotta del Sole a Quarto ad inventare la tracciabilità ante litteram in etichetta: di fronte alle voci e alle smentite sulla veridicità del vino, sulle sue bottiglie di Lettere e Gragnano sono indicati da oltre dieci anni i nomi dei conferitori di uva. Questo ha segnato la svolta per quello che è considerato il novello campano: la rifermentazione con metodo charmat fa del Gragnano e del Lettere vini di pronta beva, simili al Lambrusco Grasparossa per intederci, già in commercio entro le feste di Natale.
Aziende storiche si presentano sul mercato con prodotti di qualità: Iovine a Pimonte ha cento anni di storia, Nasti ha iniziato a lavorare a Lettere nel 1860 dove la famiglia Sorrentino, prima di fondare le Cantine Borgo Sant’Anna, costruiva botti. Più recenti, infine, le altre due aziende: Balestrieri a Gragnano ha quarant’anni mentre Stinca, a Piano di Sorrento, siamo ormai vicini al nostro aliscafo che ci riporta in Piazzetta, è nata nel 1996.
Pubblicato su Cucina e Vini, giugno 2003
Le tre doc della Terra delle Sirene
Capri
E’ stata istituita il 7 settembre 1977 e interessa tutto il territorio ell’isola di Tiberio. L’uvaggio del bianco deve essere di falanghina e greco, con una presenza di quest’ultimo non superiore al 50%. Ci può anche essere la biancolella fino ad un massimo del 20%. Il rosso invece prevede il piedirosso con una aggiunta sino al 20% di uve a bacca rossa autorizzate nella provincia di Napoli. La resa massima consentita per ettaro è di 120 quintali.
Penisola Sorrentina
Istituita il 3 ottobre 1994, la doc riguarda i comuni di Gragnano, Pimonte, Lettere, Casola di Napoli, Sorrento, Piano di Sorrento, Meta, Sant’Agnello, Massa Lubrense, Vico Equense, Agerola e parte del territorio di Sant’Antonio Abate e Castellammare di Stabia.
Il bianco è fatto con falanghina e/o biancolella e/o greco bianco, minimo il 60% con una presenza di falanghina non inferiore al 40%. Vi possono concorrere altri vitigni a bacca bianca purché autorizzati per la provincia di Napoli fino ad un massimo del 40%. Il rosso o rosso frizzante prevede piedirosso e/o sciascinoso e/o aglianico, minimo il 60% con una presenza di piedirosso non inferiore al 40%. Possono concorrere altri vitigni a bacca nera purché autorizzati per la provincia di Napoli fino ad un massimo del 40%. La resa massima per ettaro è di 110 quintali per vino rosso e rosso frizzante, 120 quintali per il bianco.
Costa d’Amalfi
Istituita il 10 agosto 1995, interessa Vietri, Cetara, Maiori, Minori, Scala, Atrani, Furore, Positano, Amalfi, Ravello, Conca dei Marini, Tramonti. Per il bianco si devono usare falanghina e biancolella (minimo 60%) con una presenza di falanghina non inferiore al 40% e di biancolella non meno del 20%. Possono concorrere anche uve a bacca bianca purché raccomandati per la provincia di Salerno fino ad un massimo del 40%. Per il rosso e il rosato: piedirosso (minimo 40%); sciascinoso e/o aglianico fino al 60%; possono concorrere anche uve a bacca rossa purché raccomandati per la provincia di Salerno fino ad un massimo del 40%.
Resa massima per ettaro: per i reimpianti e i nuovi impianti non deve superare le 1600 viti per ettaro, con una produzione massima per ceppo in media non superiore a kg 7 per i tipi rosso e rosato; kg 8 per il tipo bianco. In caso di coltura specializzata, invece, massimo 110 quintali per il rosso e rosato e 120 per il bianco.
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