di Giulia Cannada Bartoli
Resistenza… a chi? A cosa? Me lo chiedo in una giornata di sole inatteso nella mia città. Non un giorno qualunque, oggi è San Gennaro: il rapporto di Napoli con il suo santo, può essere discutibile, ma, di sicuro è unico al mondo.
Come unica e irripetibile nel bene e nel male, con tutte le sue contraddizioni, è Napoli.
Datemi pure della “nostalgica”, oggi ho voluto verificare se qualcosa e qualcuno avessero resistito al ritmo liquido e vorticoso del cambiamento che ha investito il mondo negli ultimi decenni. Sia chiaro, chi mi conosce lo sa, non sono una conservatrice attaccata al passato e alla tradizione senza se e senza ma. Credo tuttavia che certi sapori e, con loro, certi personaggi facciano parte della storia e dell’anima di Napoli.
A distanza di 14 anni, sfogliando il libro nel quale ho raccontato la vita e la storia di 50 trattorie della mia città, alle ultime pagine mi sono soffermata sul sorriso di questo “giovin signore” che vedete in foto. Vittorio Correale, oggi splendido ottantenne, oste e cuoco della sua Cucina Tipica in quest’angolo della popolare Fuorigrotta da oltre sessant’anni. I genitori e sua sorella hanno gestito per decenni trattorie nel centro storico, oggi è rimasto solo lui a resistere, felice di quello che fa tutti i giorni: far star bene i suoi clienti, molti dei quali negli anni sono diventati amici.
Arrivo all’ora di pranzo partenopea di un giorno di festa, quasi alle tre del pomeriggio, il “primo turno”, quello delle 13.30 sta finendo di mangiare. La minuscola saletta, massimo sette tavoli, è piena. Qualche coppia della borghesia di città, persone anziane, ma anche ragazzi, ai quali chiedo come abbiano trovato questo posto, mi rispondono: “facile, Google maps e instagram”!
La lavagna con il menu del giorno è ancora qui… “baccalà, coronello con le olive, polpo all’insalata, calamari e alici fritte, braciola, polpette, linguine a vongole (lupini), zuppa di fagioli, friarielli, melanzane a funghetto etc. etc.”.
Ero venuta per il fantastico coronello con le olive (il fornitore non è cambiato), ma ci lasciamo tentare dal menu del giorno di festa: spaghetti ai lupini, alici e calamari fritti, polpo all’insalata, polpette, braciola al sugo, friarielli (ve lo devo ancora spiegare cosa sono?), melanzane a “fungitiell’”, zucchine alla scapece e le mitiche patate fritte di Vittorio (ancora tagliate a mano e fritte al momento).
Pane cafone croccante e saporito, falanghina e aglianico della casa con l’indimenticato bicchiere da osteria.
Il Coronello è saporito e carnoso. ‘O Cureniello, come ho imparato dal mio Maestro Raffaele Bracale, fine studioso della cucina napoletana, è il filetto principale ricavato dalla parte centrale dello stoccafisso e precisamente dalla parte più alta della sua groppa.
Due parole sui Lupini: appartengono alla specie delle vongole, ma a differenza di queste ultime, non possono essere allevati, hanno perciò un gusto decisamente sapido, sono più piccoli e costano un po’ meno rispetto alle vongole veraci.
Cosa si mangia da Vittorio
In chiusura solo un po’ di frutta di fine estate. Per il caffè c’è il bar di fronte.
Vittorio oggi ha i capelli completamente bianchi e nella piccola cucina fa ancora quasi tutto da solo. Abita a poca distanza dal locale, ma, è talmente preso e innamorato del suo lavoro, che non torna neanche a casa per riposare qualche ora. Comincia la mattina presto con la spesa e poi in cucina fino a sera. La domenica si riposa. Gli chiedo se i figli abbiano intenzione di raccogliere in qualche modo questa storica eredità, mi risponde: “Macché! I miei figli sono laureati, una a Parigi, l’altra a Brescia. Quando deciderò di ritirarmi andrò a godermi i miei nipotini.”.
Il conto si fa ancora sul piccolo blocchetto a quadretti. Poco meno di 30,00 € a persona. Praticamente la spesa del 2010 adeguata ad oggi. J Andateci, prima che Vittorio decida di ritirarsi. Al suo posto non so cosa troverete…
Da Vittorio Cucina Tipica
Via Diocleziano 67, (incrocio con viale Cavalleggeri) – Napoli,
Tel. 081.762. 61.29
Aperto:Lun – Sab: 9.00 16,00/19,00 – 23,00 – Chiuso: domenica.
Ferie: due settimane in agosto
Scheda del 10 dicembre 2010
Cucina tipica da Vittorio, fortezza contro l’omologazione da cinquant’anni nel quartiere della Napoli operaia
Cucina da Vittorio
Via Diocleziano 67, (all’incrocio con viale Cavalleggeri)
Napoli, Tel. 0817626129
Aperto:Lun – Sab:9.00 16,00/19,00 – 23,00
Chiuso: domenica
Ferie: due settimane in agosto
Via Diocleziano si trova ai confini tra Bagnoli e Fuorigrotta, una volta quartieri distinti, oggi entrambi parte della a decima municipalità del Comune di Napoli. Ci troviamo in una zona a vocazione fortemente operaia e popolare. All’ angolo tra Via Diocleziano e Via Cavalleggeri d’Aosta, c’è una delle prime stazioni della metropolitana di Napoli, infatti, nel Settembre 1925 viene inaugurato il passante ferroviario, su cui viene istituito il servizio metropolitano; nel 1927 vengono aggiunte le stazioni Bagnoli-Agnano Terme e Gianturco; Chiaia viene ribattezzata Mergellina; Fuorigrotta viene ribattezzata Campi Flegrei, nel 1929 si aggiunge la stazione Piazza Leopardi e nel 1957 viene aggiunta la stazione Cavalleggeri Aosta, grazie al notevole sviluppo urbanistico del quartiere Fuorigrotta. Qui, al numero 67, si trova dal 1965 la trattoria, o meglio la piccola Cucina Tipica di Vittorio Correale. Questo cognome ha origine antiche, risale almeno al X secolo nel periodo del ducato bizantino, dove “l’ordo curialum” era una corporazione di professionisti con potere certificatorio nella redazione di atti pubblici e privati.
Avrete ormai intuito a vostre spese quanto sia attaccata alla mia città e quanto sia importante per me raccontarne la storia così diversa da quartiere a quartiere. Andare in giro per Napoli alla ricerca di questi luoghi della tradizione e della memoria significa anche ricostruirne indirettamente gli accadimenti e le evoluzioni/involuzioni. Per questo motivo vi riporto per un attimo alla storia di Fuorigrotta che ha un’ influenza fondamentale sul futuro sviluppo socio- urbanistico della zona. A pochi passi da via Diocleziano, in direzione di Piazzale Tecchio, sorge il monumentale complesso della Mostra d’Oltremare, ideata nel 1937, dal regime fascista, come Triennale d’Oltremare per ospitare una manifestazione celebrativa dell’espansione politico- economica dell’Italia nelle colonie d’oltremare. Il progetto, in questo modo, si poneva storicamente nell’ambito del più ampio programma per il rilancio della città che Mussolini aveva enunciato sotto lo slogan “Napoli deve vivere” ed aveva articolato nei famosi 5 punti elencati ai cittadini napoletani nel 1931: “Agricoltura, Navigazione, Industria, Artigianato, Turismo”.
Inevitabilmente, la costruzione della Mostra influenzò tutto l’ambiente urbano circostante, che, se subì la demolizione dell’antico casale agricolo di Fuorigrotta, vide però la realizzazione di un vero e proprio centro direzionale e residenziale, il cui fulcro diventava il moderno Viale Augusto, asse viario a due carreggiate separate da una larga aiuola centrale con palme e pini, strada dall’andamento leggermente ed impercettibilmente curvo, idonea a condurre fino al piazzale d’ingresso alla Mostra. Potremmo dire che la storia si ripete, già dagli anni del regime, l’Agricoltura viene sacrificata allo sviluppo urbano:). Inaugurata ufficialmente il 9 maggio 1940, dall’on. Vincenzo Tecchio, allora presidente della Mostra ed alla presenza di Vittorio Emanuele III, la I Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare terminò appena un mese dopo, a causa dell’inizio della II guerra mondiale e dei bombardamenti che la colpirono. Tale imprevisto evento determinò la totale chiusura dell’area, che fu lasciata in totale stato di abbandono anche alla fine del conflitto, a causa di motivi economici ma, anche di tipo ideologico. Nel 1940, su progetto dell’architetto Giulio De Luca, fu costruita e inaugurata la Funivia che da Capo Posillipo portava alla Mostra d’ Oltremare per un percorso di circa 1700 metri. Il percorso durò appena un anno, fu chiuso per la guerra e riaperto solo nel 1952, per essere chiuso definitivamente nel 1961. Ancora oggi, proprio nei pressi della Cucina Tipica di Vittorio Correale, ci sono ancora due piloni. Le campagne che allora si potevano ammirare durante il percorso, sono oggi affollati quartieri residenziali. Una delle 2 cabine è ancora visibile nella stazione inferiore di Fuorigrotta, trasformata in un negozio di fiori, mentre la stazione superiore di Posillipo è diventata un bar panoramico.
Il quartiere di Fuorigrotta, che è anche sede di un importante mercato rionale, meta di residenti, ristoratori e turisti, deve il nome alla sua posizione “al di fuori della grotta”, in riferimento al fatto che, sin dall’epoca romana, è collegata da una o più grotte al rione di Mergellina. La prima grotta, realizzata in epoca romana, è la Crypta Neapolitana, ancora visitabile nei tratti più esterni, ma non più percorribile per motivi di sicurezza, che collega Fuorigrotta con Piedigrotta, nei pressi della (presunta) tomba di Virgilio.
Attualmente sono invece utilizzate la galleria Laziale ed il tunnel delle IV Giornate. Fino all’epoca fascista è stato un quartiere schiettamente agricolo, in quel periodo furono effettuati notevoli interventi urbanistici che rivoluzionarono l’assetto del quartiere. A tale epoca risale gran parte della toponomastica delle strade e dei vialoni del quartiere dedicati a personaggi dell’antica Roma, via Giulio Cesare, via Caio Duilio e Via Diocleziano. E’ soprattutto nel periodo del boom economico che l’area divenne oggetto di un notevolissimo insediamento edilizio, a scapito delle residue masserie esistenti, facendo del quartiere una delle aree più densamente popolate e urbanisticamente più anonime della città di Napoli.
Il quartiere deve la sua “fama” oltre alla presenza dello stadio di calcio, a ragioni storico- sociologiche ben più rilevanti: la nascita, la vita e la morte dell’Italsider, il complesso siderurgico che, pur occupando circa 8.800 persone nel periodo di massima produzione negli anni ’60, arriva alla chiusura definitiva agli inizi degli anni ’90, lasciando dietro di sé, disoccupazione, mostri di archeologia industriale dall’incerto futuro, veleni con effetti micidiali e amianto nascosto da prati artificiali.
Il processo di dismissione degli impianti è mirabilmente narrato dal giornalista e scrittore Ermanno Rea nell’omonimo romanzo “La Dismissione”, dove il protagonista, è un ex operaio divenuto tecnico e incaricato dello smantellamento dell’acciaieria Ilva di Napoli, che sarà venduta ai cinesi, costituendo l’eliminazione di uno strumento economico importante per gli abitanti di Bagnoli. La dismissione dell’Ilva è metafora anche della fine di una fase della modernità caratterizzata dall’identità data dall’ideologia politica, dalla solidarietà sociale, dalla fedeltà al lavoro e alla legalità.
In breve, dopo la ristrutturazione, invece di svilupparsi nelle direzioni previste, per influenza degli interessi economici, malavitosi e politici, per debolezza dei sindacati, e non solo per crisi economica, la fabbrica venne chiusa proprio quando doveva espandersi.
Ne conseguirono livelli alti di disoccupazione e la trasformazione da quartiere operaio “felice”, in zona di degrado, a causa delle infiltrazioni dei clan criminali, per la prima volta, il più tranquillo quartiere di Napoli vide in faccia il delitto e apprese che cosa è una vendetta, perché, una volta che si è permesso di chiudere la fabbrica con la sua cultura del lavoro legale, la camorra si sostituisce e crea lavoro illegale e alti guadagni, inquinando tutto il territorio. Di buono restano il Circolo Italsider- Ilva, leggendario presidio di operai dell’immensa fabbrica dove nacque, crebbe e morì la classe operaia napoletana. Cento anni dopo, lo storico gruppo – che è sopravvissuto alla dismissione vive grazie ai circa duemila soci, per lo più ex “caschi gialli” che si ritrovano davanti al mare di Nisida e la Città della Scienza, da anni fiore all’occhiello della comunità scientifica e del turismo in città, che oggi rischia la chiusura , anche qui la storia si ripete.
Completato il quadro socio – culturale di uno dei quartieri più popolosi di Napoli, passo finalmente a raccontarvi di Vittorio Correale, cuoco equilibrista che si districa in una cucina di un paio di metri quadri con annessa saletta in via Diocleziano. Figlio d’arte, Vittorio è innamorato della cucina da quando era ragazzino e già spentolava nella Cucina – Gastronomia dei genitori in via Nuova Pizzofalcone nelle vicinanze di Piazza del Plebiscito.
Il locale è minuscolo, lo stesso da quasi cinquant’anni. Vittorio è un “giovinotto” sempre sorridente, occhi di chi l’esperienza l’ha fatta in strada, spiritoso e discreto allo stesso tempo, sa quando deve parlare e quando no. Ha cominciato con la mescita di vino e un tavolino, oggi la saletta ha sei tavoli incastrati tra un banco salumeria e un frigo professionale, tavoli in legno e sedie impagliate, stampe in bianco e nero di Napoli com’era, immancabile la foto del Principe de Curtis, Totò.
I posti si occupano rapidamente, comincia un’ordinato caos, tra comande ai tavoli, ordinazioni da asporto e “marenne” (colazioni) con il cucinato. Alle mie spalle due signore “bene” mangiano con gran gusto salsicce e polpette del ragù con peperoncini verdi e melanzane a funghetto.
Mi giro e vedo una nuvola fumante, abbasso lo sguardo: due enormi polpi appena usciti dalla pentola, sono lì a raffreddarsi prima di finire in insalata.
Due minuti dopo, Antonio, aiuto di sala e fac totum, qui da oltre vent’anni, tira fuori una pirofila di stocco, per l’esattezza “coronello” da fare in bianco con olio e olive.
Il menù del giorno è segnato in bellavista su una deliziosa lavagna verde: pasta e fagioli, o, zuppa di fagioli, spaghetti con soffritto, gnocchi alla sorrentina, fettuccine al ragù, pasta al forno alla siciliana.
Durante la settimana si alternano le minestre con i legumi, pasta e cavoli, pasta e zucca, il ragù, la genovese, il gattò di patate. Per i secondi la lavagna recita: stocco in bianco con le olive, alto almeno dieci cm, baccalà fritto, calamari e alici fritte,
polpo all’insalata, bistecca e salsiccia alla griglia, polpette, salsicce e tracchie del ragu’, cotoletta impanata e fritta, petto di pollo alla griglia, fegato con cipolla, caprese, prosciutto crudo e mozzarella.
I contorni sono quelli classici della tradizione: friarielli dall’aspetto molto invitante, melanzane a funghetto, peperoncini fritti, zucchine alla scapece, broccoli, finocchi crudi olio e sale, carote ed insalata. Ovviamente, ci tiene a specificare Vittorio, ci sono sempre le patate tagliate e fritte al momento, e nella rotazione dei contorni, compare sempre la parmigiana di melanzane.
La clientela mi sembra composta da habituè, molto mista, professionisti, operai, studenti, casalinghe, anziani che non hanno voglia di mangiare a casa da soli e poi i clienti fissi periodici, come una coppia di australiani che ritorna a Napoli ogni tre, quattro anni e la prima tappa è da Vittorio. Antonio prende le ordinazioni a voce, o, molto più spesso, i clienti entrano direttamente in cucina e si consigliano con Vittorio per la scelta. Tutto si svolge molto ordinatamente, quasi non sembra di essere a Napoli, non c’è chiasso, nessuno parla ad lata voce ai tavoli, eppure siamo in un quartiere popolare, sarà che tutti si adeguano al modo di fare di Vittorio “ Signori si nasce e io lo nacqui”. Antonio vola tra la cucina e i tavoli e contemporaneamente trova il tempo per incartare “le marenne” nella tradizionale carta gialla da salumiere.
E’ vero, qui in un paio d’ore si ha il tempo per veder sfilare un corposo campionario di varia umanità: dalle signore”bene”, al professionista che legge il giornale, la coppia di mezz’età che discute di fatti domestici, gli amici in pensione che vengono per il gusto di chiacchierare e mangiar bene spendendo poco, il pensionato solo che siede tutti i giorni allo stesso tavolo da trent’anni, con la sua bottiglia di vino a consumo, come fosse in pensione, silenzioso, ogni tanto qualche battuta con Vittorio: “mi vuoi portare il limoncello o no? è la terza volta che te lo dico, nun ce vengo cchiù”. Sistematicamente il giorno dopo alle 12 è già lì. La mia usuale curiosità per la provenienza delle materie prime qui è subito appagata, siamo in una zona popolare dove c’è solo l’imbarazzo della scelta tre i mercati rionali: Cavalleggeri d’Aosta, Fuorigrotta e Bagnoli. Il baccalà invece arriva direttamente dall’importatore che lo acquista in Norvegia, il pane da Frattamaggiore e la mozzarella di bufala da Casapesenna nell’agro aversano.
La passione per la cucina è decisamente di famiglia, anche la sorella di Vittorio gestisce una piccola trattoria di fronte all’Ospedale Vecchio Pellegrini, nel cuore della Pignasecca, da oltre 50 anni. Il pranzo si conclude con una fresca e croccante mela annurca, la “mala orcola”. Il quid? Primo, secondo, contorno, pane e degnissimo vino della casa fatto dal fratello di Raffaele a San Giuseppe Vesuviano, 17 – 18 euro, porzioni pantagrueliche, qualità delle materie primme ottima. Per il caffè c’è il bar di fronte o, se avete tempo e anche voglia di dolce, la pasticceria San Domingo in Viale Campi Flegrei a Bagnoli. L’età di Vittorio è indefinibile, faccio due conti: credo di non andare troppo lontana dalla verità se dico che quest’esile signore dai capelli grigi e dal sorriso accennato, spentola dalla mattina alla sera senza stancarsi da circa 50 anni, il segreto? Si diverte come un pazzo. Una curiosità: “Vittorio, ma non vedo donne in questa cucina”…”Signò, ma vuie avite visto comme stamm’ ‘cca dint’? ‘Na femmena nun po’ sta ‘ccà”… e sorride ammiccante:)
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