Crescono il numero e la fama delle donne assaggiatrici di vino. Esiste per davvero un approccio “femminile” alla critica del vino o al suo racconto e, nel caso, come si distingue?
Come membro dell’Associazione italiana nazionale Le Donne del Vino mi rivolgo alle critiche di vino in Italia per saperne di più.
Oggi lo chiediamo a Monica Coluccia.
Monica Coluccia, romana d’adozione, sommelier dal 2004, ha collaborato per circa dieci anni alla realizzazione degli eventi del vino nella Capitale e alla redazione di riviste e guide di settore (Duemilavini, Bibenda, Vitae, L’Espresso). Dal 2014 presta l’esperienza acquisita alla comunicazione del vino in contesti professionali, pubblici e privati, con seminari di degustazione sulla piazza di Roma e in giro per l’Italia, in particolare su Champagne, Campania, Basilicata, Marche e Romagna. Lo Champagne ha fatto breccia con i panel di degustazione per la guida Le Migliori 99 Maison di Champagne e con i seminari tematici che cura e conduce in Italia. Di prossima uscita un suo libro sul Greco di Tufo per Edizioni Estemporanee.
Quando e come nasce il tuo amore per il vino?
Non c’è un momento preciso. Il vino non mi piaceva in realtà, ero abituata al vino fatto in casa dal nonno e spesso “aggiustato” da papà a fine pasto con le pesche. Il “vino buono” era quello che mio padre faceva con gli amici in una masseria a Cellole, in piena Terra di Lavoro in provincia di Caserta, a tre quarti d’ora dalla casa della mia famiglia a Gaeta. Arrivava il camion pieno di uva bianca. Me la ricordo bellissima e profumata. Ho dedotto solo poi che era falanghina. Gli uomini la pigiavano al mattino col torchio, dandosi il cambio quando erano stanchi. Era lavoro di braccia, addominali e respiro. Ricordo ancora il rumore ritmato del battente di metallo ad ogni avanti e indietro della barra così come il pranzo ricchissimo che arrivava dopo la fatica. Al pomeriggio anche noi bimbi ci attaccavamo alla barra del torchio a mo’ di altalena e facevamo a gara a chi facesse scendere più gocce. Erano le ultime gocce del torchiato. In cantina sotto casa avevamo un contenitore in vetroresina per il “vino buono”. No, decisamente non mi piaceva quel sapore che sentivo quando succhiavo dal tubo di gomma attaccato alla cannetta, il vino che dalla damigiana andava travasato nelle bottiglie di idrolitina.
Ai tempi dell’università non andò tanto meglio. Mi potevo permettere quello delle fraschette dei Castelli scolato alla goccia da bicchieri di plastica sui tavolacci su cui si adagiavano la porchetta d’Ariccia e il cibo acquistato lì o portato da casa. Erano i tempi in cui organizzavo delle serate universitarie per ospitare studenti stranieri europei, quando ancora l’Europa era a 12, ed extraeuropei, quindi estoni, lituani, lettoni, moldavi, slavi, cechi, polacchi, rumeni, russi, tutti desiderosi di farci assaggiare i loro superalcolici fatti in casa (Sigh!). Ricordi bellissimi, offuscati dal tempo e forse anche dal vino e dall’alcol! Poi un giorno ho incrociato un’amica che mi disse che dovevo assolutamente iscrivermi al Corso di Sommelier che tenevano all’Hilton. Quell’amica è Francesca Tradardi, da anni in Francia, secondo me grandissimo palato, una delle più grandi sommelier in circolazione per competenza, ricerca e tenacia. Mi iscrissi nel 2003, abituata allora solo a birra e superalcolici, proprio perché non riuscivo a capacitarmi che il vino fosse solo “quella roba lì”. E infatti scoprii poi che né il Falerno né i vini dei Castelli erano “quella roba lì”. Ed eccomi qua.
A tuo avviso, come e quanto credi sia evoluta la critica del vino negli ultimi 20 anni?
Qui mi permetto di fare una precisazione. Se per critica del vino si intende genericamente la diffusione e la promozione del vino, allora sì, non c’è alcun dubbio che si sia diffusa parecchio grazie al web e, soprattutto dopo l’avvento dei social, in maniera esponenziale anche se forse con troppo disordine. La moltiplicazione di corsi ed eventi sul vino, trasmissioni radiofoniche e televisive, uffici stampa, blogger, storytelling, feisbucchiani, instagrammer e affini, la possibilità di parlare e di scrivere di vino in ogni dove è una cosa che io vedo di buon occhio nel momento in cui il fine resta quello della promozione del vino in sé o di un marchio consortile o di un brand di una singola azienda. La stragrande maggioranza degli italiani è ancora lontana dalla conoscenza anche solo del vino in bottiglia e la cultura del vino come la intendiamo noi addetti resta un concetto astratto. È una fetta veramente troppo grande che va raggiunta per gradi ma con ogni mezzo. Ben vengano quindi i tanto bistrattati influencer e tutto quello che di efficace verrà negli anni a venire. Sempre se lo scopo di tutti i soggetti di cui sopra sia quello di arrivare alla casalinga di Voghera, senza però dover spremere le aziende vitivinicole, piccole o grandi che siano, come limoni con richieste economiche continue e in certi casi anche eccessive.
In tutto questo bailamme la figura del critico del vino in senso stretto, il critico che ha acquisito una profonda competenza in anni di esperienza, ricerca e degustazione, per esprimere un giudizio autorevole su un vino per intenderci, ecco quella secondo me è la figura che ha sofferto e che soffre di più proprio per colpa del troppo disordine cui accennavo prima. La crisi dell’editoria di settore, da cui anche io provengo, ci ha messo parecchio del suo.
Quali sono i tuoi riferimenti?
I miei riferimenti sono stati, ancora sono e sempre lo saranno, i miei compagni di bevute, quelli che spesso mettono la mano al portafoglio per comprarsi una bottiglia di vino. Non sono influenzati da nulla se non dal costo della bottiglia nel caso non valga gli euro che hanno sborsato, sono un riferimento puro per me. Agli inizi erano i miei amici forumisti dei vecchi forum del Gambero Rosso e di Porthos. Si facevano chilometri in macchina per vedersi tutti attorno ad un tavolo e bere insieme bottiglie introvabili, rare e spesso molto costose, provenienti da tutto il mondo. In una di queste occasioni conobbi Luca Santini, per me palato tra i più sensibili. Una volta invece mi ritrovai ad Ostellato, in quella che era la corte dello Chef Igles Corelli, per una degustazione fotonica di vini di Borgogna abbinati a un menu in cui erano nominati tutti gli uccelli del globo terraqueo. Ero alle primissime armi, avevo da poco concluso il corso di sommelier. Per me fu un sogno. Feci il viaggio in treno andata e ritorno con Giancarlo Marino, mecenate per molti di noi sul tema, chissà se se lo ricorda. Parlò tutto il tempo: fu la mia prima lezione sulla Borgogna.
Qualcuno continua ancora a ritrovarsi in giro per l’Italia e anche io almeno una volta l’anno provo ad organizzarmi per esserci, anche grazie all’amico Ezio Bani, proprietario di un’enoteca in Umbria, altro palato eccezionale, che annualmente riunisce i vecchi amici (che non nomino ma loro sanno) con un entusiasmo e una gioia che mi ricordano ogni volta quanto valga la pena continuare a vivere il mondo del vino in termini umani oltre che professionali.
A Roma, al tempo, ci si vedeva alla Barrique grazie all’accoglienza incondizionata di Fabrizio Pagliardi, da lui ho imparato veramente tanto. E oggi ancora ci si vede, in un altro suo locale, con i ragazzi del Ruby Thursday, compagni di bevute con cui tutte le settimane, da qualche tempo quando riesco, mi metto in gioco assaggiando vini alla cieca provenienti da ogni dove. Ho incontrato e imparato tanto negli anni da molti appassionati che non degustano per mestiere ma che hanno una competenza straordinaria e che “me magnano in testa”, come si dice a Roma. Mia madre mi diceva sempre “mettiti con quelli meglio di te e rimettici le spese”. Ecco, uno di quelli me lo sono addirittura messo dentro casa.
Lavorativamente parlando trovo spesso conforto nel confronto con Paolo De Cristofaro, Antonio Boco e Alessio Pietrobattista, quelle rarissime volte che riesco ad incrociarli.
Credi che l’approccio alla degustazione cambi tra uomo e donna?
Me lo chiedo spesso e non mi rispondo mai allo stesso modo. E spesso la risposta dipende dal mio umore. Se sono incazzata col mondo generalmente penso che gli uomini siano degli esseri inferiori a prescindere, anche quindi nella degustazione. Obiettivamente alla fine penso di no. Non a caso molti dei miei riferimenti restano maschili. Per intraprendenza nella ricerca delle bottiglie? Per il momento storico in cui ho iniziato a degustare? Quando iniziai io non c’erano ancora tantissime donne che si interessavano al vino ad ampio raggio, che avevano voglia di farsi una cantina tutta loro, non solo con le solite etichette guidarole ma con qualcosa di insolito o addirittura di straniero.
Resta indubbia l’influenza del carattere innato in una donna, anche a livello inconscio, che per me è quello dell’accoglienza sia fisica sia mentale. Un’indole nelle donne più incline all’accoglienza che le porterebbe ad una apertura verso il nuovo, a porre più attenzione ai dettagli, chessò, magari perché secolarmente chiuse in una caverna o tra quattro mura e costrette a fissare sempre lo stesso scenario e a reinterpretarlo per non impazzire? Di contro gli uomini hanno sicuramente qualche attitudine nascosta a fare qualcosa di meglio, molto nascosta, ce l’hanno sicuramente, vero? ?
E come cambia l’approccio ai social e/o al modo in cui il vino si racconta nonché alla formazione di settore?
Non credo che l’approccio ai social cambi tanto in base alla differenza di genere bensì in base alla differenza di cultura e di esperienza personale. Lo stesso dicasi per la formazione di settore. Se sei capace di insegnare lo sei perché ti sei preparato a dovere. Perché c’è sotto dell’arrosto e perché hai una vocazione specifica all’insegnamento e questo prescinde dal genere.
Chi vedi nel futuro della critica enologica?
Spero che guadagni sempre più spazio la stringata fetta di critica del vino indipendente, fatta di competenza e professionalità, svincolata da logiche di compromesso economico, e quindi povera per partito preso. Al momento la vedo un po’ dura.
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