La puntata di report contro la pizza napoletana “Non bruciamoci la pizza” ha fatto molto discutere. A parte gli interessi, molto evidenti, gran parte dei pareri favorevoli (comunque pochi) considerano un bene che siano emerse le cose negative e pensano che la nostra sia stata una difesa, come dire, di ufficio, fatta per appartenenza territoriale.
In realtà già nella critica alla nostra posizione c’è una risposta: parlare male della pizza in Italia significa parlare male della pizza napoletana come parlare male dei tortellini (a proposito, sono senza fibre!-) significa rimandare immediatamente a Bologna. La pizza è Napoli e sta conoscendo un travolgente successo in Italia e nel mondo.
Ma il cuore del problema è che nel mirino della trasmissione c’è proprio la pizza napoletana Stg con un attacco duro, e senza dirittto di replica, a due fondamenti del disciplinare. Due fondamenti che caratterizzano la pizza napoletana almeno dal Dopoguerra ad oggi il cui uso è attaccato senza appello.
1-La cottura nel forno a legna. Nel servizio si parla genericamente dei rischi di questa cottura facendo terrorismo con i fumi, che vale per la pizza e per qualsiasi altro alimento preparato a fiamma viva, ma non dei metodi, maturati nei secoli che servono ad eliminarli e che sono usati nella totalità dei casi.
Essendo la pizza napoletana un prodotto artigianale, è più soggetto agli errori. Ma è proprio questo che la distingue da tutte le altre preparazioni.
La gestione del forno napoletano richiede competenza, preparazione, trasmissione del sapere come per guidare una macchina da corsa. Così la sua costruzione (a cupola e con la bocca a mezzaluna) e voler imporre altre cotture significa aprire la strada all’omologazione del gusto. Per non parlare dei moderni filtri che assorbono perfettamente i fumi come abbiamo illustrato nel famoso video girato da Enzo Coccia.
2-La farina 00. Nella semplificazione fobica del nuovo medioevo dove l’ultimo che dice una cosa è quello che l’ha scoperta, si attacca l’uso di farina raffinata. Certo, mangiare SEMPRE raffinato non fa bene, ma chi l’ha detto che le fibre devono essere per forza presenti in tutti gli alimenti? Una dieta bilanciata consente di mangiare dolci, pasta fatta in casa, persino carne. Puntare il dito sulla pizza significa voler demolire la evoluzione dell’impasto che è tipico della scuola napoletana, la sua elasticità dovuta all’idratazione che nessuno, fuori dalla scuola napoletana, riesce a gestire con tanta abilità.
Certo, una pizza con una farina con fibre può essere buona, ma è un’altra cosa perché nel sapore emerge il sapore panoso mentre nella pizza napoletana l’impasto, il pomodoro, la mozzarella e l’olio sono perfetttamente fusi nel palato. Questa è la pizza, le altre sono focacce o panini aperti come il raviolo di Marchesi
Ecco perché il cuore politico della trasmissione attacca la pizza napoletana.
Ribadiamo poi, repetita iuvant: non è corretto estrapolare 15 secondi da interviste di 50 minuti, tagliare e montare le interviste al presidente della Verace Pizza per renderlo ridicolo. Chiamare esperti che hanno rapporti professionali con operatori del settore e non l’Istituto Zooprofilattico che risponde al ministero e tutela la nostra salute. Far girare Vincenzo Pagano (frequentatore per un periodo di Cesare Previti) presentandolo come assaggiatore professionale è poi una cosa stata una cosa incredibile, visto che non ha alcun titolo per farlo (non ha mai fatto alcun corso di pizza, di olio, di mozzarella, di vino, di acqua e non è laureato in tecnologia alimentare e nemmeno in agraria) se non il suo blog dove fa un campionato della pizza in cui non si capisce chi giudica e come giudica. Perché non chiamare i maestri assaggiatori dell’Associazione Verace Pizza che insegnano nel mondo come si fa la buona pizza? Una cosa l’ho capita per come vanno le cose in Italia: ora apro un blog sulla moda e nel giro di quattro cinque anni vengo chiamato da Bernardo Iovene a una puntata sull’argomento.
Insomma, Report lascia l’amaro in bocca: forse il vero bruciato è nella informazione, non sulla pizza.
Ps: ora chiedo scusa se inserisco una nota autobiografica, ma lo devo fare perché sui social qualcuno scrive che difendo il mio orticello personale. Il mio orto si chiama Italia e con il mondo della pizza napoletana ho il rapporto che deve avere un qualsiasi giornalista gastronomico: raccontarla senza avere consulenze di sorta, dirette o indirette. Vale per la pizza e per qualsiasi altra cosa, vino e ristoranti compresi per intenderci. Lo stipendio me lo paga il Mattino dal 1986 (dove iniziai a scrivere proprio di agricoltura) e su questo blog non accettiamo pubblicità diretta, ma solo quella raccolta dal network VinoClic. Non credo che chi l’ha messa sul personale possa dire altrettanto.
Vi rimando anche a questa riflessione che ho scritto per Luigi Caricato sul medioevo dell’informazione.
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