Questa estate sul Mattino abbiamo intervistato nove cuochi da Nord a Sud, dai 40 ai 60 anni che poi abbiamo rilanciato sul blog (cliccando sui nomi le potete leggere). Mauro Uliassi, Gennaro Esposito, Heinz Beck, Pino Cuttaia, Nino Di Costanzo, Matteo Baronetto, Moreno Cedroni, Salvatore Tassa, Andrea Aprea.
Diversa la formazione, Andrea Aprea più simile ad Heinz Beck e Matteo Baronetto, Moreno Cedroni a Gennaro Esposito e Pino Cuttaia, Nino Di Costanzo a Salvatore Tassa e Mauro Uliassi. Chi musone, chi allegro, chi carico chi un po’ disincantato, è stata una bellissima cavalcata nella nuova cucina italiana, utile a fare il punto. Letture che consiglio agli appassionati e ai giovani cuochi non perché le ho scritte io, ci mancherebbe, ma perché siamo andati un po’ oltre le solite agiografie.
Beh, queste persone così diverse hanno però qualcosa in comune. Vediamo quali.
La prima è che si tratta di professionisti che hanno iniziato a lavorare subito, la maggior parte a 14 anni, dividendosi fra studio e impiego per mantenersi, essere autonomi o aiutare la propria famiglia. Persone che ancora oggi lavorano dodici, quattrordici ore al giorno, con pochissimi giorni di svago, sottoposti ad uno stress altissimo per mantenere il livello di prestazione sempre ottimale. Forse molti dimenticano che la fatica è una delle chiavi del successo. Sono di mestiere ma non mestieranti.
La seconda è il fascino, molti di loro lo esplicitano apertamente, che l’ambiente stesso della cucina ha esercitato nell’orientare le loro scelte. Stare tra pentole e fornelli li ha attratti in età adolescenziale orientando poi la loro scelta di vita. Un aspetto questo che avevo sempre poco considerato.
La terza è la loro cultura. Non in senso accademico, ma il sapere di strada, socratico. Delle persone, delle scuole di pensiero, delle tecniche, dei prodotti, della clientela, dei meccanismi della comunicazione.
La quarta è la cura maniacale del prodotto. Un po’ come il grande vignaiolo parte dall’uva e non dalla cantina, così ciascuno di loro è ossessionato da qualità e dalla unicità dei prodotti che si portano a tavola: il primo modo di disinguersi è stare lontano da ogni omologazione.
La quinta è il rapporto con la tradizione. Se la scuola di base è francese, se l’influenza di Adrià ha regalato libertà di interpretazione, la cultura della cucina italiana resta per tutti una boa di partenza se non di bolina per pi andare al lasco. In questo processo di passaggio due sono le figure cardine che in qualche modo li hanno influenzati: Gualtiero Marchesi e Gianfranco Vissani.
La sesta infine è la consapevolezza di aver vissuto un’epoca pionieristica ormai chiusa. Esaltante e fortunata ma ormai terminata. Molti dicono di aver avuto la prima stella Michelin quasi senza neanche capire come e perché. Erano tempi di scoperte
Ora, come si diceva un tempo, le conclusioni!
Una osservazione in via preliminare, marxiana se mi passate il termine: il reddito degli italiani pro capite è sempre stato in ascesa dal Dopoguerra al 2008 dove ha toccato la punta di 40mila dollari. Poi è iniziata la discesa sino ai 30.500 del 2017. Se il reddito medio è sceso e se per la prima volta le nuove generazioni sono meno ricche (massì, diciamolo, più povere) di quelle che le hanno precedute, questo spiega anche la crisi di un certo modo di pensare la ristorazione nella fascia media e medio alta (non alta) e il successo di altri segmenti come pizzerie, paninoteche, bracerie e luoghi multifunzionali che nel frattempo hanno migliorato la qualità diventando luoghi per ciò che resta del ceto medio e delle fasce giovanili.
Questo significa anche che le guide pensate e condotte per raccontare la ristorazione di una Italia che non c’è più a una clientela che ormai ristretta e tutelata dal Wwf e dai vincoli della Soprintendenza Archeologica, lasciano il tempo che trovano, con rispetto parlando per l’importante ruolo avuto in passato e per l’impegno di chi le compila ancora.
Sarà un caso che le due guide più vendute in Italia sono la Michelin e Osterie d’Italia Slow Food (che però gode anche del supporto associativo oltre che stare sul mercato in libreria)?
Se la ristorazione si sta ripensando, è necessario ripensare anche il giornalismo e la critica gastronomica. Già, perché crisi o non crisi, la gente continuerà a mangiare e ad informarsi e Trip può essere l’unica fotografia più o meno sfuocata della realtà, ma ci sarà sempre bisogno di specialisti che girano, mangiano e guidano.
Ci stiamo pensando :-)
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