In questa foto ormai vintage rilanciata sui social da Moreno Cedroni qualche giorno fa potete vedere (quasi) tutti i protagonisti della nuova cucina italiana ai loro esordi, all’inizio di una parabola gastronomica ancora in corso che ha segnato l’ingresso della tradizione italiana nell’alta cucina in modo diffuso dal Nord al Sud, dall’Adriatico al Tirreno senza sostanziali distinzioni.
Ciascuno di loro, a prescindere dallo stile interpretativo e dalla formazione, ha ridisegnato la propria identità moderna avendo sempre presente la rispettiva cucina regionale e/o italiana giocando con essa a rimpiattino. Sempre grande rispetto per la Francia, certo, o pronti ad accogliere le novità dalla Spagna (un po’ meno dalla Danimarca che affascina i cuochi zoomer), ma comunque capaci di disegnare la propria identità in modo nuovo e originale avendo ben presente le radici, ossia quello che mangiavano a casa da piccoli perché le loro mamme fondamentalmente cucinavano. Sono gli chef della generazione boomer, una parola oggi usata in senso dispregiativo, o comunque con sufficienza, dai giovani che ci dipingono un po’ rincoglioniti e soprattutto lenti in tecnologia nonostante siamo stati proprio noi i fautori del cambiamento (Jobs e Gates sono entrambi del 1955).
Ora il punto non è questo, e neanche fare un confronto generazionale perché da quando l’uomo vive in comunità stanziale ogni generazione ha avuto da ridire nei confronti di chi l’ha preceduta e di quella seguente. Il punto è che questa generazione di chef boomer è l’ultima ad avere una memoria collettiva condivisa di cosa fosse la cucina italiana nelle case e nelle trattorie prima della vittoria delle multinazionali del cibo nel processo di globalizzazione. Le differenze, profonde, rispetto a chi viene dopo sono le seguenti
1-avere come valore positivo e non come limite la stagionalità dei prodotti e la loro tipicità territoriale
2- la subordinazione dell’estetica del piatto al gusto stesso.
La domanda che mi sto ponendo da qualche tempo è questa: quando da qui a dieci, diciamo anche vent’anni, questa generazione di cuochi boomer avrà appeso le pentole al chiodo (già ci sono stati cenni di stanchezza in alcuni di loro), che ne sarà del patrimonio gastronomico italiano che i ministri Lollobrigida e Sangiuliano hanno candidato all’Unesco come Patrimonio Immateriale dell’Umanità?
Perchè a differenza con gli altri riconoscimenti, l’Arte del Pizzaiolo Napoletano la Dieta Mediterranea, che vedono impegnati tanti giovani, in campo di fine dining si avverte una cesura netta nel cambio di valori e sopratutto di assenza totale di memoria gustativa del passato. Del resto la cucina non è una entità museale, ma evolve con il mutamento della società e se prima eravamo condizionati dalla fame e dalla scarsa reperibilità di prodotti lontani per cui anche la mozzarella poteva essere una scoperta clamorosa a Milano oggi si sta evolvendo verso una assoluta omologazione delle forme e degli ingredienti, fatta le dovute eccezioni, per cui non è più possibile capire dove siamo quando mangiamo un piatto.
La risposta è che questo potrebbe essere un valore desueto, nuove frontiere si stanno aprendo ed è giusto andare in questa direzione. Ma una cosa è sicura, la cesoia del tempo sta creando uno strappo quasi senza precedenti nella storia dell’umanità. Basti pensare che il pomodoro per entrare nelle cucine aspettò almeno 150 anni mentre un alga giapponese oggi impiega qualche minuto.
Chi vivrà, berrà.
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