Non era mai successo da quando è nata, mai. Durante la Rivoluzione napoletana del 1799, i moti del ‘48, la caduta del Regno delle Due Sicilie, le due guerre, il colera, il terremoto, la guerra di camorra. Mai i forni dei pizzaioli erano stati spenti. Per Napoli non ci può essere nulla di più simbolico di questa nuova e inedita crisi figlia della globalizzazione.
La chiusura delle pizzerie è avvenuta improvvisamente, mentre, per usare una parola che si sente spesso in questi giorni difficili, il picco della espansione della pizza napoletana in Italia e nel mondo non era ancora arrivato.
I pizzaioli non hanno né i Landini e né i Boccia che scrivono e telefonano a Conte un giorno si e l’altro pure: anche se negli ultimi anni c’è l’orgoglio, soprattutto fra i giovani, di fare questo lavoro, l’individualismo regna sovrano, quasi la sintesi, il concentrato, dell’individualismo napoletano erede della Magna Grecia che è a sua volta un distillato di quello italiano. Ognuno per se, Dio per tutti.
Intendiamoci, ci sono stati tentativi di dare una risposta corale: il Gruppo Piccola Napoli ha per esempio prodotto decine di video per sollecitare le istituzioni. L’Associazione Pizzaioli Napoletana si è mossa aderendo alla petizione di ristoratori e cuochi. Ma è evidente che si tratta di armi poco efficaci rispetto a quelle che possono mettere in campo altre categorie, molto più organizzate anche se meno numerose.
Quando parliamo di pizzaioli non dobbiamo pensare alle star di 50ToPizza, che pure hanno non pochi problemi perché si naviga a vista e non si sa come e in che termini si potrà riaprire. Ma sono decine di migliaia di giovani pizzaioli, tanti con famiglia e figli a carico, che non sanno mentre scriviamo se potranno rialzare la saracinesca. E dietro di loro tante decine e decine di piccoli produttori di qualità che avevano trovato qui lo sbocco naturale delle loro eccellenze sempre respinte dalle grandi catene di distribuzione perché insufficienti sul piano quantitativo. Per non parlare dei distributori di eccellenze che avevano solo ristoranti e pizzerie come clienti e non i supermercati.
I parlamentari campani, quelli che amano farsi fotografare con i pizzaioli, ora mettano mano a degli emendamenti che siano capaci di dare risposte concrete che possano essere messe in considerazione nell’approvazione nel decreto economico.
Le richieste messe a punto dal Gruppo Piccola Napoli, ad esempio, sono quattro: 1) sospendere gli affitti dei locali e delle utenze di questi; 2) eliminare le tasse dei mesi (marzo, e di quelli che verranno), comprensiva di IVA; 3)la copertura dei fornitori e degli operai-dipendenti nei mesi di chiusura obbligatoria; 4)un prestito a tasso zero da parte dello Stato per poter pagare i fornitori e i dipendenti alla ripresa.
Certo la riapertura sarà difficile: è infatti impensabile rivedere, almeno sino a quando non ci sarà un vaccino, la calca delle file davanti a locali strapieni. Si dovrà ripartire con il basso profilo, probabilmente solo con asporto, solo con le classiche. Il Coronavirus del resto decreterà nell ’immediato la fine della pizza gourmet così come era intesa negli ultimi anni.
Per la prima volta la pizza non è il cibo rifugio della povertà, siamo tornati al pane con un salto indietro di tre secoli. Ma accendere i forni è la priorità che chiunque abbia responsabilità istituzionali si deve dare come primo obiettivo, altrimenti alla emergenza sanitaria subentrerà quella sociale.
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