di Luciano Pignataro
«Il Coronavirus sembra quasi la resa dei conti per tutti gli errori che abbiamo commesso negli ultimi decenni. Non voglio dire che ne è l’effetto, questo spetta agli scienziati, ma sicuramente ci impone di ripensare al nostro modello di vita. Che poi non è il nostro, ce lo siamo fatti imporre dagli altri».
Alfonso Iaccarino trascorre con la moglie Livia queste settimane, i figli vanno al ristorante che doveva riaprire e che si prepara ad affrontare, se tutto andrà bene, la stagione più difficile da quando è stato aperto.
Perchè questa relazione tra l’emergenza sanitaria e il modello di sviluppo alimentare?
«Io credo che basti guardare le immagini dal satellite. Il nostro cielo si sta pulendo: nessuno mi toglie dalla testa che vivere in un ambiente inquinato, mangiare cibi in scatola con coloranti e conservanti, oppure vegetali modificati geneticamente, non indebolisca le nostre difese immunitarie. Pensiamo anche a quante allergie abbiamo oggi che prima non esistevano. Non siamo cambiati noi, è cambiato il nostro modo di mangiare. Del resto la scienza è chiara: un terzo dei tumori è dovuto alla alimentazione sbagliata».
Quale l’errore principale?
«Il più grande è stato quello di mangiare troppa carne. Ma non solo: una carne di qualità sempre peggiore e trattata chimicamente di animali vissuti male. Nessuno, un secolo fa, avrebbe creduto mai che la carne sarebbe diventato il cibo dei poveri. Abbiamo importato un modello anglosassone, di quelle popolazioni che era dominate dai Romani che si nutrivano di grano, farro e aglio».
Anche l’alta ristorazione ha impostato un modello molto lontano dal nostro.
«Sicuramente, i francesi hanno dettato le regole in questo settore grazie anche alla loro esperienza. Noi italiani abbiamo iniziato ad imitarli, ma se è vero che c’è sempre da imparare, è anche vero che io ad un certo punto capii che bisogna attingere alle nostre tradizioni, ai nostri beni, tutelare la biodiversità del nostro territorio. Mentre altri si compravano auto e ville io ho investito comprando il terreno a Punta Campanella dove ho potuto fare e fare tante sperimentazioni sulle verdure, i legumi, l’olio, la frutta, i limoni».
Non solo carne, anche il settore agricolo forse è da rivedere.
«Questo è un altro capitolo decisivo. Nelle campagne non esistono più le api, gli insetti e dunque anche gli uccelli. C’è il paradosso per cui si trovano più insetti in città che nelle estensioni agricole intensive. A Punta Campanella invece c’è di tutto, dobbiamo tornare alla biodiversità del passato, uscire dall’ ossessione delle grandi quantità e dei prezzi bassi, puntare ad uno sviluppo del settore alimentare più equilibrato che tenga conto della salute dell’ambiente e dell’uomo».
Questo è un momento molto duro per la ristorazione. Cosa prevedi che accada?
«Beh questa crisi sicuramente ci libererà di molte inutilità e ci farà tornare all’essenza delle cose, alla dimensione più umana del rapporto con il cibo. Quei territori che sapranno preservare l’ambiente, come la nostra Penisola Sorrentina, hanno sicuramente delle carte in più da giocare. Il cibo, la biodiversità sono il nostro petrolio, spero lo si capisca una volta per tutte. Non dobbiamo piegarci a modelli che hanno fallito e che già prima del coronavirus ci stavano portando al disastro globale».
Perché la biodiversità è un valore?
«In primo luogo perché è cultura, e la cultura è complessità. Solo gli ignoranti pensano che le cose siano semplici: la nostra società si è progressivamente impoverita, di spezie, di erbe, di specie animali, di ricette e poi anche di vocaboli. Ma la lezione di questa emergenza ci ricorda che siamo essere umani, che nulla è per sempre e che per superare i pericoli servono intelligenza e competenza».
Il futuro?
«Non c’è dubbio, la cucina mediterranea. Fatta di colori, di profumi, di materie prime uniche, di scambio di culture e soprattutto di equilibrio per restare sani e salvare l’ambiente».