Giugno 2004: a parte Falanghina Felix non si sa nulla delle più importanti manifestazioni della Campania vitivinicola. Si conosce, ovviamente, il programma di Montefalco e della Langhe a settembre, della Franciacorta ad agosto, di Montalcino nel febbraio 2005: ma cosa ci riservano Taurasi, Guardia Sanframondi, Torrecuso, Castelvenere, Tufo, Solopaca e altri centri resta un mistero.
Settembre 2004: se non fosse per il vino la Campania non esisterebbe. Questa la considerazione finale di una estate disastrosa, dove le beghe politiche hanno talmente dilaniato i comuni che l’esercitazione preferita di tutti è stata distruggere quel che si era riusciti timidamente a costruire negli ultimi anni. Tra le feste del vino e la sagra delle salsicce non c’è più praticamente nessuna differenza, perché l’unica spesa che si sostiene sul fronte della comunicazione è quella di stampare qualche manifesto per attirare gli abitanti dei comuni vicini e fare numero in piazza. Siamo all’assurdo: mentre tutti i comuni vitivinicoli del Centro e del Nord guardano all’Italia e al turismo straniero come platea per le celebrazioni del loro vino, curano i rapporti con la stampa estera, investono in comunicazione sulla stampa specializzata con mesi di anticipo, cercano di catturare operatori e giornalisti con educational tour, la Campania entra in una fase di preoccupante regressione persino rispetto ai deboli segnali delle scorse stagioni. Le feste del vino non sono organizzate bene, calca, parcheggi, bancarelle, confusione, cantanti neomelodici, le hanno trasformate in sagre volgari prive di ogni interesse per chi gira in cerca di novità. La moneta cattiva scaccia la buona e le persone di un certo livello professionale e culturale hanno preferito restare al mare.
Mi sono chiesto i motivi di questa forma di coglionaggine collettiva e dopo essermi dato una risposta sono arrivato alla conclusione che non c’è più nulla da fare, siamo già fortunati ad avere un prodotto dignitoso sulle nostre tavole visto il disastro antropologico, sociale e politico.
1. Alla base di tutto c’è sicuramente il perdurare della dimensione psicologica paesana tra produttori, amministratori e organizzatori. Nei piccoli centri infatti non c’è bisogno di fare comunicati stampa, dare appuntamenti, predisporre programmi a lunga scadenza perché si vive uno vicino all’altro e la forma di comunicazione orale è considerata quella più utile ed efficace. Per questo non si comprende il motivo di rivolgersi a specialisti del settore, tanto <tutti lo sanno>. Il mondo si esaurisce nel centro abitato, al limite a quelli confinanti. Se viene qualcuno da fuori è il benvenuto, ma alla fine non è necessario che venga. La conta è quante bottiglie in più ho venduto del mio vicino nella salumeria dietro l’angolo, non quante ne produciamo insieme sul mercato globale. Non a caso tra loro i produttori si definiscono l’uno l’altro con il termine <la concorrenza>. Una abitudine risibile in una regione che tutta insieme ha un decimo delle bottiglie messe dalla sola Gallo sul mercato mondiale e dove la maggior parte delle cantine non supera i 50.000 pezzi. Come i bimbi che litigano per una barretta di cioccolato dentro un negozio con le pareti di cioccolato.
2. Purtroppo la situazione è peggiorata: negli ultimi tempi queste feste, anziché essere strumenti di comunicazione all’esterno del prodotto del territorio sono diventate soprattutto una occasione per regolare i conti, per fortuna solo psicologicamente, in faide eterne di cui all’esterno è impossibile capire il significato. Spesso nate da stupidi motivi. In queste comunità oppresse dalla loro ignoranza mediatica e comunicativa l’importante non è ottenere risultati, ma impedire che il <nemico> di sempre realizzi qualcosa, così la vendetta politica, il piccio personale, sono sicuramente più importanti del commerciare.
3. Il passaggio dallo sfuso all’imbottigliato è stato per la maggior parte dei produttori una sorta di improvviso benessere, dopo secoli di fame e di povertà è già troppo quel che si è avuto in questi anni di boom e non c’è perciò motivo di sforzarsi per guardare ai mercati nazionali e internazionali.
4. Il risultato di questa mentalità precapitalistica è sotto gli occhi di tutti: nonostante gli sforzi e i buoni propositivi, l’odio e la gelosia personali sono più forti della convenienza commerciale. I consorzi stentano a decollare, le riunioni per costituire le strade del vino previste dalla Regione anziché durare cinque minuti si protraggono per anni (il progetto è stato avviato nel 2002), mancano i marchi collettivi, non ci sono punti di riferimento, info point, enoteche pubbliche, guide. Si viene da queste parti e ancora non si trovano strutture a cui poggiarsi per poter lavorare. Quasi nessuno sa come si accoglie un giornalista. In piccole società autoreferenti non è poi importante avere buona stampa, basta la parola. E se qualcuno ti scrive contro è perché <certamente è alleato con il mio nemico>. Per questo sono poche, pochissime, le aziende dove qualcuno sa rispondere al telefono, con i foto book pronti, le e-mail in funzione, i siti aperti, un servizio attrezzato per il ricevimento degli ospiti.
5. Di conseguenza la categoria dei giornalisti campani non riesce ad esprimere uffici stampa specializzati nel settore agroalimentare, spesso chi cura saltuariamente l’immagine di manifestazioni e aziende non sa nemmeno di cosa deve parlare e cerca di risolvere alla buona i problemi dei colleghi.
6. Siccome nella logica del familismo amorale in cui continuano a vivere le piccole comunità meridionali non esistono istituzioni e regole che non siano quelle dell’appartenenza, quando si sono montati gli stand in piazza e la musica è appena iniziata, solo allora ci si pone il problema di far uscire qualcosa sui giornali affidandosi ai rapporti personali con questo o quel giornalista. Per due motivi: primo perché quando si spendono soldi pubblici, ed è il caso di queste manifestazioni, bisogna dimostrare di aver fatto qualcosa e l’articolo sui giornali resta la prima documentazione per il rendiconto. Secondo perché a questo punto il politico locale ci tiene a fare bella figura e dimostrare ai suoi elettori, ma soprattutto ai suoi nemici, di essere così potente da poter uscire sui quotidiani.
Questo è il circolo vizioso vichiano a cui assistiamo da qualche anno con una aggravante. Che adesso non c’è paese dove non venga organizzata qualcosa con la degustazione di prodotti tipici e con un po’ di vino. Mancano le idee, e chi le offre senza chiedere soldi passa per coglione. In questa situazione infatti calano imbonitori da tutte le parti che spremono queste comunità contadine così come i venditori nel vecchio West vendono acqua come lozione miracolosa per i capelli. Di converso queste occasioni mancate di sviluppo e di crescita mi ricordano quelle donne arabe che non si bagnano nel mare cristallino per obbedire ai propri costumi religiosi.
In Campania dunque il bilancio 2004 è disastroso, sconcertante, disarmante: manifestazioni che avrebbero il compito di attrarre turisti non hanno portato ad una sola presenza in più negli alberghi, decine e decine di milioni di soldi pubblici vengono spesi inutilmente dalle amministrazioni e dispersi in mille rivoli patetici e ridicoli dove tutto è improvvisato, arruffato, spassatempo per dilettanti allo sbaraglio. Non si riesce a costruire niente di stabile, capace di resistere ai cambiamenti politici.
Hanno ragione quei viticoltori intelligenti che preferiscono stare alla larga da tutto. Almeno risparmiano energie psichiche. Pensavo che queste piccole comunità contadine dovessero solo maturare, oggi credo che siano nate vecchie.
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